La beatitudine tra finzione e realtà

beatitudine

“Il teatro, insomma, è una truffa!”
Così recita il sorprendente sottotitolo dello spettacolo “La beatitudine”, in scena in questi giorni al Franco Parenti.

Una dichiarazione di intenti che ha lo scopo immediato di spiazzare la percezione dello spettatore, quasi quanto quel titolo beffardo, ricco di doppi sensi e, forse proprio per questo, svuotato di senso.

“E’ tutto nella vostra testa”. Ecco il monito che ci lancia a fine spettacolo il finto mago Cosma Damiano. Già nel suo nome d’arte, che unisce due tra i principali santi venerati soprattutto nel meridione d’Italia, c’è l’intuizione di un’illusione, di una sorta di incanto in cui lo spettatore è stato introdotto, un rito che da millenni unisce menti e individualità in un’unica grande comunità chiamata a partecipare ad una Sacra Finzione, una sorta di messa laica.

L’intelligente ipotesi non è originalissima. Molti altri, Pirandello su tutti, avevano abbondantemente dissertato in merito all’antitesi tra finzione e realtà, tra scena e vita reale. Ma senz’altro originale è la modalità utilizzata dai bravissimi Fibre Parallele per parlarcene. Sin dall’inizio, in cui gli attori schierati ci osservano, reagiscono ai rumori che produciamo, si presentano e parlano con noi, diventando per un attimo loro stessi spettatori della nostra finzione, prima di scivolare, quasi senza che noi ce ne accorgiamo, all’interno dei loro personaggi.

Solo allora, dopo un accurato e lento auto – inserimento negli abiti cerimoniali della Sacra Finzione, si può iniziare a raccontare una storia provocatoria e spietata, in cui due ambienti familiari (una coppia in crisi per l’impossibilità di procreare e una madre con un figlio disabile) vengono progressivamente ridotti in polvere da quella brutta malattia che è la vita reale, vista attraverso le lenti della finzione scenica.

La malattia, ecco. Una delle chiavi di lettura della nostra società, qui indagata nella sua doppia accezione: quella fisica del ragazzo in carrozzella e quella mentale della coppia, che utilizza un bambolotto per dare finta vita ad un figlio che non ci potrà mai essere. La nevrosi di entrambe le coppie, destinate (lo si capisce da subito) ad un processo di annientamento progressivo, non prima di aver attraversato improbabili scambi di partner.

La drammaturgia, pur con qualche cedimento eccessivamente esplicativo, ci scivola dalle mani, conducendoci verso l’inevitabile, che si concretizza in un pre-finale da standing ovation, con decine di piatti che vengono disintegrati a pochi centimetri da noi, mentre le due coppie intrecciate si inseguono, si aggrediscono fisicamente, si annientano.

Ma era tutto nella nostra testa. Tutto è stato, nulla è stato. Ed ecco tornare il fattucchiere dal nome improbabile, a ricordarcelo ancora (forse evitabile quest’ultima didascalia di qualcosa che ci era già chiaramente arrivato) e a chiudere la messinscena mentre gli attori, uno dopo l’altro, abbandonano l’illusione ed escono dalla comunità della Sacra Finzione, di cui tutti abbiamo fatto parte.

Ottima prova d’insieme dei ragazzi capeggiati da Licia Lanera. Bravissimi gli attori, tutti, con una citazione a parte per la meravigliosa e coraggiosissima Lucia Zotti, nei panni della madre del ragazzo disabile.

Massimiliano Coralli

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