“La vita ha un dente d’oro” e lo stereotipo dell’ubriaco

Claudio Morganti mette in scena “La vita ha un dente d’oro” scritto da Rita Frongia. Da subito la sensazione che si ha è quella non di essere spettatori ma, al pari dei due seduti al tavolo sul palco, avventori in un bar: il loro stesso bar. Non stiamo guardando uno spettacolo: stiamo spiando, origliando i discorsi dei due uomini al tavolo vicino al nostro.

Forse si sono conosciuti li. Non è facile capire chi siano, che gioco facciano con le carte, che cosa bevano; ma capiamo, però quello che dicono.  Lo capiamo anche se parlano croato (?); riusciamo a vedere un cane inesistente, a capire gli ordini che gli vengono impartiti e a “sentire” il loro disappunto quando l’animale li disattende.

Una parola detta, un cenno del capo danno il via a nuove dialoghi. Noi (spettatori/avventori/coro greco) riusciamo a essere partecipi del tutto anche quando una frase è data da uno sguardo, un concetto è espresso da un gesto.

Una marea di parole, sotto testi, espressioni del corpo e del viso da cui sorgono analisi sul concetto di bellezza e di arte, sul ruolo dell’attore e del teatro.

Gli argomenti di volta in volta introdotti vengono trattati con modalità teatrali diverse. C’è spazio per tutti i generi: dalla commedia dell’arte al cabaret dal monologo drammatico al “grammelot”,  alla “clownerie”. Non manca neppure lo stereotipo dell’ubriaco sbiascicante che si trasforma in una piccola lezione di teatro.

E tutto ciò avviene tra due attori eccezionalmente “in ascolto” l’uno dell’altro con capacità rara di presidiare la scena anche senza battuta.

Un intelligente, malinconico, divertente e suggestivo viaggio nell’ultimo sogno di un attore.

Roberto De Marchi

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