Recensione: “El nost Milan – I signori”

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Eccolo, sul palco, il vitello d’oro, nella sua essenzialità geometrica, forte e potente simbolo, al pari del kubrickiano monolito. Lo spettacolo si pone, da subito e senza sconti, la seguente domanda: la verità vi prego, sulla ricchezza, e cerca, strenuamente , la risposta. La regista Serena Sinigaglia, insieme a un dreamteam di drammaturghi, porta l’indagine su di un  terreno antropologico, e si spinge ancora oltre, verso la dimensione dell’ineffabile, dell’indicibile. Giunge là dove non si tocca, nel mare magnum dell’inconscio collettivo, in cui la dea dei patrimoni si presenta velata, al pari di una pirandelliana signora Ponza che dichiara apertamente di essere colei che si crede sia, l’ineffabile cosa per sé che si mostra nella rifrazione infinita dell’ essere per gli altri. Tutta la psicopatologia della ricchezza quotidiana, tutta la nevrosi dei Mida contemporanei ci vengono impietosamente mostrate, o meglio fatte indovinare, da quei tenui spiragli di luce dorata che escono dalle porte chiuse dell’economia dei grandi numeri.

Dunque, di nuovo, ci si trova a sbirciare nel castello rothschildiano delle meraviglie, dislocato nella Milano da bere, o meglio da sorseggiare, con in mano l’ideale parola d’ordine Fidelio, per assistere alla grottesca orgia degli abracadabra esistenziali; mentre sacerdoti incappucciati officiano il rito, omaggiando, fino agli applausi, la serietà di questo gioco del potere. Altra grande intuizione, in questo lavoro, è la capacità di ricavare, sul fornello alchimistico del palcoscenico, l’oro interpretativo dalla gente comune, dalla città che racconta se stessa. Anzi, per citare la geniale immagine dell’inconscio trovata da Freud, quella persona di spalle di cui vedo solo la nuca; ossia la città dei pochi, dei boschi verticali, dei ristoranti stellati e degli attici. Per far ciò,  regia e autori vanno, decisamente, in direzione contraria rispetto alla comfort zone del teatro aristotelico: riescono a grassettare, spaziare i gesti, a tramutare l’azione in situazione, costruendo una nuova e rivivificata forma di teatro epico. Si creano, in platea, stupore, attenzione, capacità di poter dedurre autonomamente le proprie riflessioni. Le azioni diventano biomeccaniche, si trasformano in coreografie del “money makes the world go round”.

Ma c’è ancora di più: c’è la rivoluzione copernicana del punto di vista , il rovesciamento tra soggettività e oggettività. A parlare, stavolta, sono gli oggetti della ricchezza; i simboli, i feticci prendono la parola taciuta, se non negata, da parte dei fruitori. Le poltrone della Scala si animano, in forma di attrici ed attori, per ragionare del chiacchiericcio lezioso dei partecipanti alla prima. C’è, poi, una spa, ossia una moderna piramide in cui mummificarsi nell’illusione dell’eterna vita corporea, in cui a ragionare sono gli oggetti, più saggi e spiritosi  di chi li utilizza. Si termina la frase pirandelliana in questo modo: “essere è farsi… un lifting, un ringiovanimento cellulare”. Anche nella clinica privata, oltre ai medici, e al Quarto Stato ospedaliero, ossia ASA e OSS, è la strumentazione stessa a ragionare. Viene mostrato, da quel particolare punto di vista, lo spettacolo di arte varia di soggettività straricche, che cercano di invertire la direzione di marcia del tempo verso il denaro nel suo opposto, ossia il denaro che si tramuta in aspettativa di tempo. E ancora, replicanti molto meno romantici di quelli di Blade Runner sono messi, giustamente e impietosamente, alla berlina. Ragazzi di periferia cercano il sogno del vello d’oro, con l’aiuto di una novella Medea registica.

La Borsa diventa un luogo misterioso, nascosto ai più, impenetrabile attraverso una porta blindata di burocrazia, più del castello kafkiano. Scuole private, alberghi di lusso sono luoghi in cui celebrare la Messa dell’oro, del sole a portata di mano, dell’eternità a buon mercato per questi milionari. La polis cerca, con successo, di raccontare l’assenza, il velarsi, dell’Eldorado milanese, il suo nascondersi nelle sue logge del culto. Il finale non può che essere affidato a Lella Costa, aurea dea, oscura e insieme dorata, più enigmatica della Pizia apollinea; oracola il suo eterno sfuggire, il suo dannare, la sua spiritualità oscena, la sua maschera infinita.  E il semplice apparire, come il cavaliere inesistente fatto solo d’armatura  – all’interno, un metafisico nulla – ci sussurra, idealmente, nell’orecchio la jazzante frase della canzone Goldfinger: Golden words she will pour in your ear,but her lies can’t disguise what you fear . Parole d’oro ti verserà all’orecchio, ma le sue bugie non possono mascherare ciò che temi.

Danilo Caravà

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