Recensione: “Hard to be Pinocchio”

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Fogli di carta lasciati cadere da un uomo che pesta pesantemente il palcoscenico del teatro Out Off, che attraversa lo spazio semivuoto e in penombra, fino all’angolo del proscenio in cui si colloca una scrivania. E lì in quell’angolo, inizia a prendere corpo Hard to be Pinocchio del regista e scenografo Simone Mannino. Tutto il primo atto si svolge in quell’angolo, situazione spaziale già di per sé claustrofobica, aggravata da un approccio al testo non immediato, che cigola un po’ prima che lo spettatore possa trovare una chiave di lettura e decodifica. Probabilmente ricercata, questa frammentazione dei dialoghi, così come è frammentato il filo della storia, ipoteticamente scritta su quei fogli di carta lasciati cadere alla rinfusa, la prima impressione è che la scelta del regista sia quella di non raccontare niente di reale, non una storia da capo a piedi.

Sono delle visioni, quelle create dai personaggi: un Geppetto e un manipolo di quattro inquietantissime figure che incarnano di volta in volta i diversi protagonisti del Pinocchio collodiano. Parzialmente collodiana è anche la lingua che parlano, resa per lo più incomprensibile non dalla sua ineluttabile natura ottocentesca, ma dalla costruzione tutta contemporanea su cui è avvinghiata. Tre donne e un uomo in abiti scuri si rivolgono a Geppetto per tormentarlo, come se bussassero alla porta della sua paranoia per provocarla e farla emergere dal buio della stanza in cui questo padre falegname ha creato il suo figlio burattino. Creato, non costruito. Pinocchio non c’è, se non come allucinazione: un bambino vaga sulla restante parte del palcoscenico con un albero in mano. Intanto in quell’angolo con scrivania continua il dialogo delirante in cui Geppetto e Pinocchio sono la stessa persona. Pinocchio non esiste se non nella mente del suo creatore. La scelta allora forse è raccontare lo sdoppiamento del processo di creazione.

La scelta, dopo un intervallo e un cambio di scenografia, è quella di ambientare la storia-non-storia in un non luogo. L’intero spazio scenico è stato riempito di armadi, sedie e tavoli di legno, disposti in modo simmetrico e speculare: di nuovo si avvalora la teoria del doppio, della creazione che dà vita a mondi paralleli in cui tutto è uguale e il contrario di tutto. Questo spettacolo è, e non è Pinocchio. Geppetto, la fata turchina, il grillo parlante, il gatto e la volpe, sono e non sono quelli di Collodi. Hanno del romanzo pedagogico i nomi, ma non le fattezze: i costumi di Philippe Berson richiamano l’ottocento ma si fanno rigonfi e deformanti. Le luci di Petra Trombini, per quanto pittoricamente ben realizzate, costringono la palpebra dello spettatore a uno sforzo costante nella messa a fuoco. Scelte che sembrano convergere da tutti i punti di vista verso la totale negazione, l’annientamento di ogni speranza, di ogni possibilità di affrancarsi dalla condizione di ciuchini o burattini. Scelte che calano lo spettatore in un melmoso pantano di nero perenne e angoscia. Scelte che pongono parecchi interrogativi e dubbi.

Alessandra Pace

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