Recensione: “Il gioco dell’amore e del caso”

caso
foto Alessandro Saletta

Succede una sorta di miracolo con questo lavoro, una quadratura del cerchio riuscita quanto quella dell’uomo vitruviano di Leonardo: l’esprit de finesse e l’esprit de géométrie riescono a convivere felicemente. Apollo e Dioniso non hanno più la necessità di dividersi temporalmente la residenza umana del tempio di Delfi, e trovano una casa in comproprietà, sul palcoscenico del teatro Litta. Lo spirito, o, meglio, l’essenza del teatro di Marivaux, possono ottenere, finalmente, un loro riscatto. Dopo la lunga teoria di malinteso ed equivocato utilizzo della parola divertissement, stavolta, a questo concetto così felicemente e semanticamente francese, si rende piena giustizia. L’immagine del primate “pucciato” nel rosa di una ideale cage aux folles, e ovviamente mascherato, è la migliore icona visiva di questa riuscitissima sovraimpressione tra razionale e irrazionale.

Nel gioco di ruoli invertiti, che scombina il (fin troppo scontato) sentiero lineare della dialettica servo-padrone di Hegel, accade che le coppie possano dimostrare l’algebrico assunto che, invertendo i fattori, il prodotto non cambia. Il delicato tendaggio, madreperlaceo, attraverso le nuances dei fari colorati, è un velo di Maya volutamente depotenziato, un gioco del vedo-non vedo a rappresentare un rilancio semiotico, una moltiplicazione meta-teatrale del delicato spirito di nascondimento e rivelazione che permea tutto il testo scenico. Il cartesianissimo adagio “avec moi tout devient mathématique” si declina, qui, alla magnifica maniera del drammaturgo francese e, insieme, del regista Syxty. Questa matematica, volutamente, si lascia contaminare da una danza di bonaria illogicità, destinata, però, a traguardare nell’alveo del confortante sillogismo da  finale di commedia. La geometria cartesiana si concede un momento coreutico, e i personaggi stessi, prima Arlecchino e poi tutti gli altri, danno l’impressione di piegare lo spazio per trasformarlo in un complesso e affascinante origami, destinato a diventare, anch’esso, ulteriore elemento scenografico.

C’è un accurato lavoro di cesello sulle movenze, sui vettori di movimento, su di una gestualità che fa il verso alla mascherata nevrosi esistenziale dell’uomo del ‘700, non così distante da quello contemporaneo. Gaetano Callegaro, in scena, è in stato di grazia, illuminato da un intuito che non lo abbandona in ogni singolo istante; imparruccato warholianamente, in un’argentea chioma liscia alla Cher, incarna il perfetto burattinaio, un Orgone maestro dei giochi. Porta l’insostenibile leggerezza dell’essere attore su di un  invisibile piano metafisico, e si candida ad essere un padre raisonneur, genitore dell’intera vicenda scenica. I suoi fonemi si inarcano, quasi impercettibilmente, nel sorriso da Gioconda, ineffabile, eppure così in grado di catturare ogni possibile attenzione. Francesca Massari interpreta una Silvia, figlia di Orgone, in grado di scoprire le ragioni dell’amore, che la ragione non conosce, una scena alla volta, una carta alla volta, spillandole, come farebbe il buon giocatore di poker. Il Dorante di Francesco Martucci rinnova robustamente la categoria degli amoroso. Porta in dote, al suo personaggio, la verità del dubbio, dell’incertezza, di quegli ideali baffi posticci eduardiani, così messi per indicare che, nella percepibile finzione, si nasconde e si svela la più vera delle verità. Jasmine Monti interpreta una serva Lisetta capace di sfoderare tutto il suo armamentario di bel esprit, in grado di colorare, con sfumature di  spumeggiante comicità, queste liaisons dangereuses.

L’Arlecchino di Filippo Renda si mette, letteralmente, di traverso, e, nelle sue diagonali di movimento, ridicolizza felicemente il minuetto dell’aristocrazia. Restituisce i lazzi, ricreati e testati in laboratorio, con l’efficacia del principio fisico di azione (comica) e reazione(di riso) da parte della platea. E poi,  sarebbe imperdonabile non citare le meravigliose padovanelle, in gergo le uscite, che, con valente arte scenica, portano gli interpreti a prolungare efficacemente la loro permanenza scenica; si creano una scia, una eco di comicità, in grado di moltiplicare la squisita umoralità dei personaggi, e, al contempo, il loro deflagrante umorismo. Il finale, crepuscolare, con quel delicato controluce, e sottilmente malinconico, ha tutta la potenza di un Arlecchino strehleriano, di cui l’intero spettacolo condivide, senza dubbio, il delicatissimo lavoro di restauro sul lazzo, e, per estensione, sui perfetti meccanismi a orologeria della commedia scenica.

Danilo Caravà

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