Alle latitudini tropicali, sulla zattera del palcoscenico, nel ridotto di resistenza del teatro, nel perfetto centro tra il sud dei Santi di Carmelo Bene e il nord dei peccatori mortificati nelle drammaturgie scandinave, si può parlare di Utopia. E lo si fa evocando una figura, irresistibilmente donchisciottesca, di un rivoluzionario, la cui storia è stata scritta con l’inchiostro simpatico dell’oblio, per essere recuperata dallo scrittore Claudio Facchinelli e dal drammaturgo Tommaso Urselli. Un uomo semanticamente in bianco, puro nel perseguire l’idealità, tenero e illuminato medico, si destreggia tra i ciliegi cechoviani e gli alberghi dei poveri di Gor’kij. Geniale la scelta, del regista Alberto Oliva, di aver ricavato, dai sottosuoli delle interpretazioni dostoevskjiane, l’attore Mario Sala nella parte del protagonista. I suoi fonemi, dotati di una propria liquidità emotiva – roridi di muscolo cardiaco, e dal sudore di una partecipazione e presenza, insieme, mentali e fisiche – si timbrano e si stampano, sul foglio della pagina scenica, con la forza delle dita di un vecchio reporter che, reggendo la sua Lettera 32 sulle gambe, sa che dovrà calcare ogni battuta sulla tastiera, per compensare l’usura dei martelletti metallici.
Poi c’è quel sorriso che, letteralmente, tracima dalle labbra per arrivare agli occhi, al volto, a tutta la sua potente, quanto esile, figura. Sala non sorride “semplicemente”, Sala è la gioia del rito teatrale. E quel tenerissimo, struggente scivolare della erre, che rende così umana, così vera la sua dizione, quello zoppichio della consonante vibrante, lo portano a far vibrare, interamente, la propria essenza; a dare in scena tutta l’anima, anche quella che non si ha. Si relaziona con un pappagallo, magistralmente interpretato da Angelo Tronca: un grillo parlante che ha fatto il salto di specie, lo specchio di un’infaticabile coscienza. Questo rivoluzionario che nell’atanor, nel fornello alchemico dei suoi profondi convincimenti, trasforma la sua vita di tentativi falliti in poesia esistenziale, in forza motrice, porta idealmente in tasca la frase beckettiana: “Ho fallito, non importa: fallirò ancora, fallirò meglio”. Ma, poi, riscatta i finali di partita del drammaturgo irlandese con una parola ancora gravida di aspettative e significati, rigettando la forza inerziale del linguaggio, il girotondismo di una loquacità che ritorni, per inerzia, su se stessa. Lui ci crede, ci crede davvero, e tenacemente cerca di trasmettere, al suo Sancho Panza piumato, tutta la forza del suo pensiero. Come direbbe Gaber, rivendica la necessità di trasformare la libertà in partecipazione, e legge tutta l’urgenza, da medico, di curare non solo il corpo individuale, ma il corpo sociale, l’intero consorzio dell’umanità. Racconta il suo infaticabile nomadismo tra un continente e l’altro, braccato dalla polizia dello zar; si ritrova tra i gringos americani con lo spirito di una Frida Kahlo, essere alieno caduto sulla terra dove stanno attecchendo il liberismo, l’industrializzazione, la produzione seriale.
Tuttavia, il globetrotter delle rivoluzioni mantiene intatto il suo spirito, rimanendo eticamente intonso, al pari di un principe Myskin, o di un uomo felicemente, e catarticamente, ridicolo. E la risata non è per niente un inciampo, bensì voluta, auspicata; diventa l’ulteriore colore dei fari, che si sublima nei sorrisi. La comicità dà la stura allo spettacolo, nel gustosissimo incipit dell’uomo pappagallo, in cui un improbabile traduttore automatico, piuttosto umorale, riporta in italiano le note biografiche del rivoluzionario, espresse in un irresistibile grammelot russofono. Quel cranio evidente del protagonista – per dirla con Cioran, il personaggio ha dei dialoghi silenziosi con il proprio scheletro, che la sua carne non gli perdonerà mai – rievoca il gesto del colonnello Kurtz, che chiama a raccolta i suoi roridi pensieri, toccandosi la testa glabra. Con le luci dal basso, espressioniste, sembra, a tratti, il lucido e allucinato scienziato, felicemente pazzo, in Metropolis di Fritz Lang. Il pappagallo, dal canto suo, diventa perfetto alter ego, e va, come in una sorta di presa di coscienza, di scambio osmotico psichico, ben oltre l’eco delle parole del rivoluzionario. Le completa, le anticipa, meglio delle giocate di un terzino contro l’attaccante, dividendole con l’altro, come fossero un pane eucaristico. Per tutti i naufragi esistenziali di questo tribolatissimo ventunesimo secolo, siano essi concetti o metafore, si avverte forte, da parte della platea, la necessità di questo medico che ci ausculta l’anima, per sentire se c’è ancora un po’ di utopia a ventilarla, a pompare il sangue del più schietto, sincero e fraterno umanesimo.
Danilo Caravà
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