Recensione: “Il sosia”

sosia

Nella psicanalisi la fase dello specchio è cruciale, quell”stante in cui il bambino riconosce l’immagine riflessa come propria. Ma ecco che subito si ingenera un irrisolvibile paradosso, quello di ritrovare e riconoscere la propria identità fuori di sé, l’io è decentrato, periferico, e nemmeno una passeggiata in carrozza per San Pietroburgo potrà aiutare a trovarla. La regia di questo riuscito adattamento del Sosia di Dostoevskij prende spunto da Lacan, da quell’Altro che ci definisce e di cui prendiamo i desideri. Il campo di battaglia è tutto intrapsichico, ma non per questo meno cruento. Dostoevskij, si sa, frequenta e cartografa pazientemente tutte le zone oscure dell’animo umano, i suoi momenti estremi di empietà e di debolezza.

L’io rimane una questione aperta, un servitore di più padroni, perennemente a caccia del suo ubi consistam. La scenografia, non può che moltiplicare l’interrogativo, come una galleria degli specchi, o meglio ancora, come un labirinto di specchi del luna park, dove non c’è filo di Arianna a guidare, e il minotauro diventa il nostro riflesso. Il doppelgänger è, per sua natura, guastatore, ha intenzioni devianti, se non inverse, oppone al volere il suo rovesciamento speculare. Verrebbe da rispondere idealmente a Carroll che ci sono mondi affascinanti e insieme terribili anche e soprattutto al di qua dello specchio. Il peccato originale diventa l’autoriconoscimento, la maledizione diventa quel primo steccato di rousseauiana memoria, posto tra sé e gli altri. L’atto della nascita dell’io è l’amputazione da tutto il resto. Il protagonista muove veloce le sue gambe, e taglia gli spazi come se fosse un rasoio, come un Woyzeck pronto a esplodere, qui nel suo doppio. La vicenda è immersa in un nero caravaggesco da cui emergono i personaggi nella luce color ocra, metafisicamente malata.

C’è qualcosa di kafkiano in questo spettacolo che riesce a offrire insieme la maschera del tragico e del grottesco. Goljadkin si replica all’infinito nelle immagini degli specchi, come il terzo uomo di Aristotele che insegue qui l’dea della propria identità. I sogni del sognatore dostoevskiano diventano incubi, e Ananke l’invisibile divinità della necessità si stringe intorno al collo del protagonista come la maschera della rana del diabolico Vincent Price. Qui si trova la tragedia di un uomo ridicolo in purezza, la sfida impari, in cui lo scacco matto sarà dichiarato fra poche mosse, tra un uomo e il suo destino, svilito dall’incolore quotidianità del travet. Dio è scivolato su un apostrofo, ed è diventato d’io, la duplicazione del problema, non la sua soluzione. Il personaggio usa idealmente il sabot del sosia per far inceppare il meccanismi di una società che lo sta masticando e digerendo pian piano.

L’attore Elia Schilton ha già un viso antico, che si affaccia sul mondo con tutto il suo tragico, dionisiaco bassorilievo. Ripercorre idealmente i disegni grotteschi di Leonardo nelle sue espressioni, le sue parole sono umide, sono note decide di uno strumento a fiato, sono certi fraseggi di Chet Baker che lasciano una traccia liquida, tangibile. La sua recitazione è lautremontianamente affascinante come la retrattilità degli artigli di un uccello rapace, trasuda anima da ogni fonema. Mostra senza sconti tutta la struggente umanità ferita di un principe Myskin, abbraccia, si aggrappa al personaggio del medico con lo stesso impeto con cui Nietzsche abbracciò il cavallo frustato, prossimo al suo crollo nervoso, al pari del protagonista. C’è una vertigine irresistibile nella sua recitazione, una forza magnetica che ti cattura, che ti aggancia, che ti tiene lì in bilico sull’ultima sillaba, sull’ultimo silenzio, in attesa di ciò che seguirà. C’è un dio speciale, forse Dioniso, che accende i suoi sguardi, che fa sì che sia il testo stesso a parlare attraverso la sua carne.

Fabio Bussotti è l’altro uomo, incarna con efficacia, timbrando con decisione la sua recitazione, tutti i personaggi con cui il protagonista si confronta, che hanno tutti la stessa maschera del Caporale di Totò; tutti tranne uno, quello del sosia, dello specchio vivente, frutto, forse, di una sorta di parto mentale di un’Atena deviante, più malata degli dei di Hillman. Fa gioco di squadra, è il compagno di scena ideale in grado di fare riusciti assist, con una visione del gioco teatrale, pronto a finalizzare le scene, a porre su di esse lo stesso timbro messo con reiterata ostinazione sui fogli della scrivania. Fa detonare tutte le occasioni di potente emotività della storia, è il rovescio più radicale, più estremo, è quell’altrità dell’io, prima di tutto incoglibile per il suo legittimo proprietario. Kantor uccide le certezze di Kant con la maschera del sosia, e Mr Hyde è irresistibilmente attratto dal fascino discreto della borghesia. Il paint it black di Oliva in questo spettacolo non fa sconti e guarda in faccia il Sosia, come Dorian Gray il suo ritratto. Sa di sale il pane della letteratura dostoeskjiana ed è bene farlo sentire. E se non ci sono pareti nere, in compenso ci sono specchi, geniale metafora di una conoscenza del mondo che è sempre il riflesso che di essa costruiscono i sensi. L’io è una sconfitta, per usare la terminologia freudiana, un precipitato di cariche oggettuali, e da esse ,per mitosi psichica, spirituale, può nascere persino un sosia.

Danilo Caravà

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