Recensione: “Kobane”

Kobane
ph Falciola

Che cos’è il confine?
È una curva geografica e/o politica, frontiera controllata da un soggetto o da un’autorità che la separa da quelle controllate da altri soggetti o enti.
Ma il confine può anche essere rappresentato da una linea impercettibile e immateriale, un deserto che divide in due fronti e allontana irreparabilmente.

In scena in prima nazionale fino al 13 maggio al Teatro Libero, Kobane, spettacolo di Fabio Banfo, diretto dal regista Manuel Renga.

Kobane è una cittadina a nord della Siria, sulla frontiera turca.
Kobane è un simbolo, sinonimo di resistenza.
Kobane è confine.

Lo spettacolo comincia in un ambiente domestico, una cucina di una casa in Italia, abitata da una famiglia che attende il ritorno a casa della figlia Maria (Valentina Cardinali), laureata in lingue arabe partita per la Siria mesi prima come interprete e poi sparita senza dare informazioni.
Viene riportata a casa e come lei stessa ammette “non è stato un rapimento”. Ora porta il velo, si fa chiamare Fatima ed ha abbracciato la fede dei suoi veri fratelli musulmani.

Gli scontri in famiglia non tardano ad arrivare anche se la madre Elena (Silvia Soncini) cerca di essere comprensiva e starle vicino. Il fratello Teo (Daniele Vagnozzi), adolescente ribelle, che si scopre essere omosessuale, non capisce la scelta della sorella, il padre (Corrado Accordino), professore di Storia in pensione, malato di Alzheimer, non riconosce neppure la figlia se non per pochi attimi di lucidità e infine il maresciallo (Vincenzo Zampa), nuovo compagno di Elena, è da subito diffidente nei confronti della scelta di Maria. Il professore è una sorta di voce narrante fuori dagli schemi, parla per metafore e avvenimenti storici ed è convinto che i Barbari stiano per arrivare. Il suo cervello è Palmira, demolito dalla malattia, in macerie dopo i bombardamenti ma le sue parole prevedono e commentano le azioni che si svolgono davanti ai suoi occhi.

Il testo è una scrittura originale, fluida e attenta che sceglie di parlare di terrorismo attraverso il tema dei foreign-fighters, estremizza i sentimenti e cerca di costruire, battuta dopo battuta, il deserto tra la famiglia e la figlia, deserto che si ritrova anche visivamente sulla scena grazie ad una striscia di sabbia sullo sfondo. A terra, il pavimento è una scacchiera bianca e nera, come se l’intera vicenda fosse una partita aperta da giocare.

La regia riesce a sostenere il pathos dell’azione drammaturgica e al termine dello spettacolo se ne distingue l’intento.
Sul finale il climax drammaturgico raggiunge l’apice, si scopre che Maria è tornata in Italia per “andare nel vero deserto” rappresentato da una società che non la rispecchia più e per compiere ciò che ritiene giusto… e la sabbia, che infine copre tutto, scendendo anche dal cielo, annulla i confini sprofondando tutti nel deserto.

Valentina Dall’Ara

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