
Che cos’è il teatro? La risposta di questo spettacolo è semplice, immediata come un pane rustico spezzato e consumato con la platea, una sedia ed un attore. La lezione di Peter Brook vive ad altre latitudini, quelle del profondo sud, dove l’anima e la carne non sono scollate, piuttosto sono un impasto che profuma del lievito di umanità. Qui Cartesio non è arrivato, qui il pensiero si dà immediatamente nella voce e nel corpo. Il miracolo compiuto di La Ruina è quello di scoprire la sua anima junghiana, un femminile che sorride alla Luna, che trova la propria poesia in uno sguardo, che è li a guardarci ostinatamente come un tabernacolo, un mistero che conosce il proprio sangue. La sua voce sa farsi sottile, e il suo dialetto arriva nella pancia della platea prima che alle orecchie.
Come il suono limpido che fa il dito inumidito sul bicchiere di cristallo, così fa la sua voce, che passa con la stessa delicatezza sulle parole di questo copione. Ha raccolto testimonianze di donne del sud, che hanno ricevuto la porta in faccia dell’ “arrangiati” di fronte alle gravidanze ripetute, che sono passate dall’inferno delle mammane, dove una strada di paese poteva diventare una via crucis, un Golgota. Com’è terso, pulito il cielo della sua recitazione, come sono leggeri i suoi sorrisi dolorosi, come riesce a filar seta dalla sua laringe, a creare il suo corredo di parole da donare direttamente. Non c’è una quarta parete in questo spettacolo, piuttosto un’osmosi emotiva, psicologica, quasi fisica tra palcoscenico e platea. Il musicista, Gianfranco De Franco, riesce sapientemente a costruire un’architettura di suoni dove abita la recitazione di La Ruina. Ma definirla recitazione non rende giustizia, piuttosto rappresenta la eco di uno spirito femminile; la sua voce contiene tutta una popolazione interna di donne che cantano il loro dolore nei silenzi e nelle parole masticate silenziosamente, agre come certe erbe amare, che però riescono a pulirti di dentro.
Come il tzimtzum della mistica ebraica, ovvero la contrazione della divinità per far posto alla sua creazione, così l’attore si fa cortesemente da parte, si ritrae per lasciare il suo posto interiore a disposizione di queste donne. In questo universo femminile gli uomini vengono raccontati come gli Achei delle Troiane euripidee, pronti a far incetta delle loro prede di guerra, pronti a “coalizzarle”, a misurarle come oggetti, campi coltivati, attraverso le quali soddisfare il proprio desiderio. Ogni gravidanza è un appesantimento delle tragedie personali, è un aumentare della povertà e della fame. La protagonista si chiama Vittoria e parla con Cristo da pari a pari come una povera crista, e porta le sue sconfitte come si potrebbero portare dei sassi in tasca, ma il suo passo, rimane calvinianamente leggero. Per lei ben si addice la didascalia pirandelliana “umile dignità”: è un corifeo del femminile che parla direttamente con il deus ex machina sospeso tra la terra ed il cielo, incerto se fare la grazia oppure no. Certi soffiati dell’attore sembrano riprodurre il fruscio di certe lenzuola di lino dei corredi, di certi vestiti leggeri, colorati, che si portano d’estate. Si ha l’impressione, in platea, di sentire non dei semplici fonemi, ma di percepire tutto un mondo, in cui queste donne si trovano a lottare con le unghie e coi denti. Fanno del loro stesso sangue femminile la loro preghiera, il loro pugno alzato contro il cielo e contro questi uomini così insensibili, così brutali. Muoiono, rimangono offese a vita per aborti che sono dolore su dolore, che sono urla dell’anima capaci di far ritrarre dalla vergogna e dal pudore persino gli dei.
Si avverte, negli spettatori, un silenzio religioso partecipe, un fiato comune trattenuto, gentile, che si toglie idealmente le scarpe per non disturbare la voce dell’attore. Anche la luce accarezza con delicatezza la seta di questo femminile, per non rovinarla. La semplicità è in realtà difficile da restituire, ma La Ruina riesce in questa impresa, creando un’antropologia teatrale che ti tocca il cuore, che te lo prende fra le mani per sentirne il battito. Il suo femminile è quasi una magia, è preso dalla fonte di un inconscio collettivo, una fonte dell’anima che precede la differenza di genere. La vocalità è una carezza di una mano femminile vissuta, ma lunga, straziante, tenera e compassionevole. Il suo verbo, in buona sostanza è già carne, ancor prima di raggiungere la platea. Quando ci racconta il dramma della nipote, i suoi fonemi calzano i coturni tragici più potenti, e la dignità enorme del proprio dolore risuona in ogni dove, lo fa torreggiare, regala allo spettatore un brivido necessario che vive e si consuma lungo la schiena. Non sono parole queste, sono tranci di vita, sono corpi e anime di donna che costruiscono il loro linguaggio di dolore attraverso una sorta di tatto fonetico. E il momento degli applausi diventa davvero, come non succede spesso, un momento di catarsi collettiva, di liberazione e insieme di memoria acquisita, prima di tutto, nella propria carne, e il battito delle mani è la sublimazione di un abbraccio al generoso interprete.
Danilo Caravà
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