Recensione: “La vita al contrario”

vita
foto Luigi Cerati

Ermeneutica, tristallegra, di un viaggio all’indietro

A ritroso, controcorrente, si nasce per morire, o si nasce per tornare a nascere e, lasciarsi alle spalle la vecchiaia, facendo un salto in avanti, che, a ben guardare, è un grande, coraggioso ed imprevisto salto all’indietro? All’improvviso, ma non troppo, le rughe e tutto quel corredo di difettosità fisiche, fragilità corporee e spirituali, quel grigiore progressivo, lasciano spazio ad una disarmante ed incalzante giovinezza. Una vita al contrario o il contrario della vita che siamo abituati a concepire? Tutto questo e molto di più nella piece teatrale La vita al contrario, il curioso caso di Benjamin Button, in programma dal 9 al 14 aprile al teatro Liltta. Anzitutto esce dalle pagine del racconto scritto da Fixgerard nel 1922 dopo che udi’ Mark Twain pronunciare ” E’ un peccato che la parte migliore della nostra vita venga all’inizio e la peggiore alla fine” Non possiede la lunghezza della pellicola cinematografixa del 2008, ma fa rivivere questo curioso caso ed appassiona, fa tendere senza forzare, accarezza, senza stridere.

Merito della prorompente forza espressiva, quella del monologo. Giovanni Lupano, attore famoso anche a livello televisivo, talentuoso ed evocativo, è il signor Nino Cotone, traslitterazione italiana di Benjamin Button, che si accorge di un fatto, non proprio di tutti i giorni e vuole condividerlo, quasi cerca lo spettatore perché lo ascolti, perché non lo lasci solo, in questa esistenza atroce e kafkiana, quella di un puer senex costretto a divenire senex puer. La sua storia infatti, non è come la propone la biologia classica, ma deve fare i conti con un bimbo dalle fattezze anziane e dalla fisionomia senile, che papà Guglielmo (reso dallo stesso Lupano con una padronanza ed un alternanza di voci, da quella di Nino a quella del padre e viceversa) fa fatica ad accettare ma comunque accoglie. Ecco il primo paradosso, incastonato, sul testo di Pino Tierno e magistralmente reso dalla macchina teatrale, per la regia di Ferdinando Ceriani, l’ideazione di Lorenzo Cutuli, con le colonne sonore di Giovanna Famulari e Riccardo Eberspacher, una produzione Artisti Associati. Una vita che inizia, quando, in quelle condizioni, normalmente finisce o sta per finire. Non siamo in America, patria dell’autore del racconto, ma in Italia, nell’Italia laboriosa e piena di fermenti post Unità.  Sulle prime sbigottito e sbalordito Nino ricorda e fa conoscere il surrealismo del suo vivere. Si perché Nino fa la sua vita, cercando di protendere, mentre però, la sua vita, come inesorabile piano inclinato, va indietro. Sembra di percepire, in questo strambo incedere per indietreggiare, quella sensazione visiva deformante che si prova quando siamo in treno, fermi in una stazione ed il treno accanto si muove. Il treno della vita di Giovanni andrà avanti, percorrerà i kilometri delle esperienze, troverà la fermata dell’amore, otterrà strenuamente successi e riconoscimenti,ma costantemente in bilico tra un “essere troppo vecchio per” o, al contrario, “Essere troppo giovane per“. Il suo elan vital, per dirla alla Bergson,è esplosivo, mentre il vagone della sua corporeità torna, come palla di un bowling impazzito, alla base. Il suo mondo della vita ed il dipanarsi della sua durata, non coincide con il tempo fatto e finito, da sempre e per sempre gettato in avanti, anzi, è proprio il tempo a corrergli dietro, a farlo correre indietro. La valigia zeppa di pezzi di ricordi, reminiscenze del suo vagabondaggio fuori dal normale, racconta, prima di tutto alla sua sfera tattile, il suo tristallegro labirinto. Il racconto, non è come altrove una componente evasiva, ma ha un’urgenza che nessuno e niente può fermare, quella di dire di sé prima che il suo sé si cristallizzi, tornando definitivamente nella dimensione afasica ed acoscienziale di un infante. Nino come il suo omonimo immortalato dalla canzone di De Gregori La leva calcistica del 68, non ha paura di sbagliare un calcio di rigore, ma ha paura, che la sua vita rovesciata, sia destinata a disgregarsi in atomi immemori ed insignificanti, ed allora la narra, ce la fa conoscere. I fogli consunti ed ingialliti, che irrompono da una vetusta cartella fuoriuscita dalla sua valigia, sono i passi delle sue scelte e le scelte dei suoi passi, inesorabilmente, a ritroso. Nino è un novello Giano, non bifronte, ma con una fronte destinata ad approdare, solo nel passato.

È un Orfeo consapevole, che non si gira indietro per amore di Euridice, ma perché glielo impone la sua natura ibrida, eccezionale e sovrabbondante di bimbo – anziano, di vecchietto – lattante. L’unico farmaco davvero capace di abbracciare il tempo oggettivo ed il tempo gambero di Nino sembra essere la scrittura, la parola che fissa, la parola che eternizza: “Tutti hanno una vita speciale a modo loro, tutti sono qualcosa che nessun altro èné sarà mai”. Ecco l’irripetibilita’ tanto cara a Kierkegaard, di ogni essere umano, che riguarda anche Nino, al netto del suo lento retrocedere, dentro e non fuori il suo allenarsi a ri-nascere. Non solo lo sentiamo vicino, anche grazie a quel saporito spaccato di fatti italiani che hanno calpestato, lo stivale, dall’Unita’ d’ Italia fino agli albori degli anni sessanta, ma Nino siamo un po’ tutti noi, è ognuno di noi, che di riffa o di raffa, prima o poi, è chiamato a rispolverare il bambino che era, per ricapire qualcosa, per raccontarlo a qualcuno, in una escatologica ma laicissima, nascita dall’alto. In che cosa ci fa entrare questo spettacolo? In un microcosmo tutto made in Italy, con suoni ed accordi di quel lasso di tempo storico, come se anche la storia stessa, per riacquisire senso ed orizzonte, avesse bisogno di tornare un po’ bambina, originaria ed originale, in qualche modo rivivibile senza i delitti delle due guerre e gli abusi del boom economico. È un ‘ermeneutica totale e variopinta, mai banale, sempre accattivante quella realizzata da Lupano, dove diversi stili si uniscono non per essere uno più bello o bravo dell’altro ma per consegnare, all’unisono, un’altra storia ed una storia altra, dove forse le terga sono l’unico modo per essere ali e gli specchietti retrovisori volentieri ma con pena si fanno acceleratori di una monoposto amara e fantasiosa ma nemmeno, forse, così tanto. Non è solo Nino, ma una donna, Lucrezia Bellamaria, ne scorta la progressiva degressione; ora è l’infermiera incredula che lo vede venire alla luce, ora è la sua nutrice nelle iniziali ore finali di una segnata e mortifera infanzia. Ora è il primo amore e la sua sposa, Bettina. Si, Nino può anche tornare indietro perché sperimenta il solo sentimento in grado di far crescere: l’amore. “Ho un sussulto, una specie di reazione chimica dissolve e riccompone tutti gli elementi del mio corpo, sento il sangue pulsare nelle vene” sussura Nino quando la vede per la prima volta e lei ha venticinque anni. La ama, ma lei è destinata a corrompersi, lui a ringiovanire, allora gode al contempo della presenza di amanti, evocate dalla stessa Bellamaria, che ne decretano la sua frizzante giovinezza. Il fanciullino di Pascoli,  la piscina benedicente di Cocoon, sono testimonianze poetiche e filmiche di un ritorno, stabile, ad una beata gioventù. Qui invece sono attimi di effimera baldanza che portano ad un venire al buio, che altro non è che un venire alla luce della morte, al contrario, appena nati. Ecco cosa ci pone davanti Nino Cotone. In fondo più che una narrativa di cotone, si tratta di un racconto non di lana caprina, ma di lana pregiata, puro cachemire teatrale. 

Luca Savarese

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