21 grammi, il peso dell’anima: ecco, le parole della protagonista pesano 21 grammi esatti, né uno di più, né uno di meno. La sua vocalità è, già di per sé, pieno significato, phonè nel senso beniano del termine, verbo che si offre in tutta la sua verità immediata. Questa particolare Penelope, beckettianamente incastonata nella matassa di un gomitolo, sospeso a mo’ di Luna nel cielo scenico, gioca tutti i suoi giorni felici negli sguardi, e nei dolorosi, e insieme meravigliosi, sorrisi. Rossella Rapisarda è un fiore gentile, che ti cresce, battuta dopo battuta, giù giù negli atri e nei ventricoli cardiaci. Illumina, con la sua voce, quel paesaggio emotivo. Poi c’è il suo modo unico di sorridere e ridere, e qui proprio non c’è partita. Come riesce a sovrapporre, in un’istantanea scenica, Talia e Melpomene, la commedia e la tragedia, e come riesce a tendere l’arco di Ulisse delle sue labbra, in un sorriso che gronda di gioia e dolore? Solo lei custodisce questo segreto.
Meraviglioso cristallo di neve, purissimo, in grado di sciogliere, nell’unico crogiolo del gusto, lo spirito apollineo e dionisiaco. Riesce a muoversi con le parole, con la irriverente fanciullezza di una Zazie nel metrò. Porta l’archetipo di Penelope con una levità unica, e tiene tutto l’infinito tempo, che proprio non vuole saperne di scorrere, sulle delicate mani, facendolo rimbalzare idealmente, come il mondo-pallone del Grande dittatore. Il personaggio ha sempre qualcosa da dire al proprio autore e a se stesso; in particolar modo, la moglie di Ulisse, che si propone come uno spazio in purezza, apparentemente fermo, l’ultima intuizione dell’illuminazione definitiva. Questa Penelope, prima di tutto, è, e lancia a sua freccia ben oltre la quarta parete, facendo diventare il suo corpo, la sua voce, una danza del noi: una danza di condivisione, un corpo mistico, una zona dell’anima condivisa, in grado di risuonare sotto la pelle di ogni singolo spettatore. Si ha l’impressione che i suoi fonemi siano la sublimazione di un ballo, di un tempo di valzer, un tre quarti ispirato al movimento delle onde. Il testo è condiviso dalla penna della Rapisarda e di Fabrizio Visconti, che cura anche la regia, distillando, con pazienza certosina, ogni parola, e, dietro di essa, ogni attesa, ogni singola carezza. Quando pronuncia una battuta, la protagonista è come se facesse sentire al pubblico la sua carezza lunga, la stessa evocata dalla Vitti per far capire quanto riuscisse a coinvolgerla il suo canagliesco Giannini, nel film A mezzanotte va la ronda del piacere. E, a un certo punto, si compie il miracolo scenico di non riuscire a capire dove finisca Penelope e dove inizi Itaca, in una soluzione di continuità, nella luce che esita splendidamente su di un blu lunare. La poesia è questo piccolo, grande miracolo dell’universale che si consuma nello spazio contenuto della sala Cavallerizza: l’haiku drammaturgico di una donna che trova la luce proprio dove non te lo aspetteresti, in una piccola parentesi, in un a parte, in un gesto , nella nervatura di un filo ritorto, a rappresentare, anche e soprattutto, quanto sia piacevole scegliere la via più lunga, più tortuosa, meno lineare per raccontarsi. Il bello è che questa Penelope ha tutto il tempo del mondo omerico, e, se non bastasse, ha la capacità di rendere vasto mare anche il più esile istante.
Non si sente più nemmeno la nostalgia delle vecchie divinità dell’epica, visto che, appesa letteralmente a un filo, la protagonista trasforma se stessa in un deus ex machina. Per scriverla alla Shakespeare, fa di un palcoscenico un regno, trasforma il monologo in una danza di luce, e, davvero, le sue parole sono l’illuminazione di un faro ulteriore . Da qualche parte, potrebbe essere nascosto un Debussy, pronto a far risuonare un Clair de Lune silenzioso, che riverberi, contemporaneamente, nella mente e nel cuore. Questa Campanellino felicemente ingarbugliata in un gomitolo, questa Ariel che compie splendidi voli rimanendo ferma, questa Titania che si crea, tutta da sola, il suo sogno di una notte di mezza estate, sorridendo come solo lei sa sorridere, porta ogni spettatore a ritrovare la propria Itaca. Si compie il miracolo di toccare le sponde di una patria universale, prima di tutto interiore; abitata, fatalmente, da una presenza femminile, che spalanca le braccia, come un angelo della consolazione spalancherebbe le proprie imponenti ali.
Danilo Caravà
Leave a Reply