Recensione: “Libertà obbligatoria”

Libertà obbligatoria
foto di Laila Pozzo

Libertà obbligatoria e…vivacità garantita!

Il signor G, in fondo, non è mai morto. È vivo più che mai il suo spirito ed operante il suo ricordo, che sta animando il ventennale della sua scomparsa, avvenuta il 1 gennaio 2003, con iniziative e spettacoli d’ogni genere. 

Come questo Libertà obbligatoria in scena, al teatro Menotti, dal 14 al 25 giugno.

Un vero e proprio frullato di Giorgio Gaber o meglio, per stare al passo coi tempi, un detox gaberiano. Lo bevi, pardon lo guardi, e ti riconcili con la sua dialettica ironica ma serissima purificandoti da quelle forzature, inevitabili, che i primi vent’anni senza il signor G, ne hanno un po’ impolverato il pensiero.

Freschezza ed effetto catartico, rese possibili anzitutto dal piano collettivo dell’opera confezionata dal regista Emilio Russo, dove Sara Bertelà e Gianluigi Fogacci (le due new entry del gruppo rispetto a Far finta di esser sani), Andrea Mirò, Enrico Ballardini e la piccola orchestra Musica da Ripostiglio, danno luogo non tanto ad una rievocazione ma ad una celebrazione, distaccata ma coinvolta, dei contenuti dell’etica e dell’estetica gaberiana e del suo teatro – canzone.

Pronti via ed è subito il clima ruspante ed a tratti irruente del 1976, anno dell’uscita dell’album. Ecco infatti il cantautore, intento con i suoi amici “compagni” a preparare la registrazione dell’album al teatro, occupato, Duse di Bologna, nell’ottobre del 1976. Ma, e questo è il vero coup de theatre, l’album esce dalla discografia e diventa spettacolo, a tutto tondo ed a pieno titolo. 

Così le sensazioni ed i desideri di quell’evento, altro non sono che testi, parcellizzati e diluiti, del signor G, suonati dalla band e nobilitati dall’evocativa voce di Andrea Mirò, gaberiana di dura cervice. 

Ma tra una parola e l’altra non manca il respiro per una riflessione, un modo, diverso per ognuno, di rielaborare un concetto del corpus gaberiano.

 “Ho bisogno di un delirio, che sia ancora più forte, ma abbia un senso di vita e non di morte” frase che compare all’interno del brano Delirio ed altri mosaici di pezzi di quell’album, ritmano lo show, dove lo spettatore, non percepisce nessun passatismo ma un invito a vivere, anche le piaghe del presente, riascoltando quelle melodie, riassaporando quelle noti dominanti.

Un menù davvero variegato e per tutti i gusti, cucinato con ingredienti di prima qualità, come i taglienti e scoppiettanti frammenti filosofici, le visioni oniriche, come quando Gaber stesso racconta prima di aver sognato di parlare con Gesù a Roma e poi di aver sognato di dialogare con Marx a Milano…Non mancano i riferimenti politici mai però pedanti ma sempre leggeri e ben incastonati nell’ordito.

“La minestrina è un po’ di destra, il minestrone invece è sempre di sinistra”, prima che cali il sipario, l’orchestra ripropone un cavallo di battaglia, sempre attualissimo, come “Destra – Sinistra”.

Il sugo di tutta la storia? Per dirla con le parole di un altro milanese doc, scomparso non da vent’anni, ma da centocinquant’anni? Gaber è ancora vivo, rivive in questo spettacolo che altro non è che un rituffarsi, senza affogare nel melenso ma anzi attraverso le acque rilassanti ed evocative della sua cifra spirituale, nel mare magnum, indefinibile per davvero, inclassificabile una volta per tutte, del suo repertorio.  

Luca Savarese       

Be the first to comment

Leave a Reply

Your email address will not be published.


*