
Céline ci ricorda che tutto ciò che è interessante, nella vita degli uomini, accade nell’ombra, in una no man’s land, zona che sta sempre un po’ prima e un po’ dopo le biografie agiografiche, o quelle con la pruderie del gossip, della demitizzazione. Ecco, ci vuole proprio un francese per decodificarne un altro, ovvero Molière; e ci vogliono, soprattutto, un attore, Alessio Boni, un drammaturgo-regista, Francesco Niccolini, e un musicista, Alessandro Quarta, per trattare l’ombra -direbbe Dante- come cosa salda, e restituire Molière in un corpo vivo, prima di tutto fonetico. L’interprete mette tutti i suoi registri vocali a disposizione del grande commediografo francese, rendendo la laringe un secolo, un regno di shakespeariana memoria. La biografia è sempre, in scena, un esercizio funambolico, pericoloso, senza rete di sicurezza: si tratta di incarnare l’intera esistenza di un personaggio, di farne un mondo come esso lo vive, pirandellianamente, da dentro, col suo modo di sentire e pensare. Boni non solo riesce in tutto questo, ma rilancia. Si gioca a poker tutto il suo resto, e vince, vince sempre, tenendo lo spettatore inchiodato all’ultimo fonema, a quello che verrà.
Bastano pochi, essenziali, oggetti scenici a richiamare, in una magnifica sovraimpressione, il Seicento, ma soprattutto il teatro di quel secolo. A tutto il resto provvede la voce, che, impastata con la musica, è tutta un testo scenico, un meraviglioso teatro del mondo in moto perpetuo, come una lanterna magica, al fine di raccontarci la parabola umana di Molière. Tappezziere, valet de chambre ovvero cameriere privato del re, fallimentare tragediografo, amante collerico e tradito, commediografo eccezionale, sfugge alla singola cornice definitoria; si muove più veloce della vita che è chiamato a raccontare, lasciandosela idealmente alle spalle, con il fiato corto. Racconta impietosamente i difetti dei suoi contemporanei, mette alla berlina tutti: borghesi, clero, dottori. Fa sfilare sul suo palcoscenico, in una danza grottesca, ciò che Thomas Gray definirà madding crowd’s ignoble strife, l’ignobile lotta della pazza folla. La satira della commedia più puntuta e caustica esce dalla sua penna con la stessa naturalità con cui la musica era vergata da un Lully. E quello dell’attore appare proprio uno spartito, un pezzo a due col musicista, in cui i suoi fonemi diventano strumenti ogni volta differenti. Non si fanno sconti, certamente, alla figura di Poquelin, che appare in tutta la sua umanità; d’altra parte, ammonisce Cioran, un’esistenza che non nasconda una grande follia è priva di valore. E il grande valore aggiunto di questa drammaturgia è raccontarci le radici del comico, che, spesso, poggiano in una lacrima sublimata, in un sistema immunitario spirituale che si cura le uggie con un sorriso, o, meglio, con una risata. Si intravede una sorta di proporzionalità diretta tra le crescenti difficoltà umane, affettive e fisiche del grande scrittore teatrale francese, e la sua creatività.
Nel pieno delle tempeste sentimentali, la Musa della poesia comica, Talia, lo rende un suo favorito, emulando il Re Sole; gli ispira le migliori commedie, proprio mentre il suo trucco dell’anima si scioglie, e la sua voce scenica è rotta, sincopata da una tosse stizzosa, continua, poi fatale. E quella voce, presa da qualche antro omerico, da un dolorante e tradito fiato di un Aiace tragico, ci ricorda la ribellione di un uomo che ha scritto un’unica, immensa tragedia: la sua stessa biografia. Lo zenit del testo scenico viene toccato quando Boni propone, in un monologo tratto da La scuola delle mogli, un momento di perfetta sincronia e coincidenza tra l’amour fou e dannato di Molière per la moglie Armande Béjart, e quello del protagonista della commedia; il momento perfetto in cui l’inchiostro comico si screzia di una lacrima, in cui finzione e verità giocano come due gemelli identici, che fanno apposta a non rendersi, in alcun modo, riconoscibili. Il finis vitae del commediografo sembra, esso stesso, un’opera teatrale: spirato a poca distanza da una replica de Il malato immaginario, lontano dalla pietà degli dei e degli uomini, fu seppellito nella zona del cimitero riservata ai suicidi e ai bambini non battezzati. Eppure, nell’ombra più ombra che ci possa essere, continua a emettere una luce in grado di oscurare quella dello stesso Re Sole, che lo riconobbe come suo protégé, e che, in casa del defunto, come segno di rispetto, pare avesse tolto, per l’unica volta in vita sua, il cappello. Dopo l’ultima battuta, gli applausi esplodono come una santabàrbara accesa dal fuoco di un’interpretazione ventrale, dionisiaca, partecipata, poetica, mistica e, soprattutto, profondissimamente umana.
Danilo Caravà
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