Recensione: “Otello, di precise parole si vive”

otello
foto Serena Serrani

Lella Costa ha un dono unico, che proviene, idealmente, da una lunga genia di aedi, di raccontatori, di sciamani: una parola speciale. Si impregna di certi umori dell’anima, fa risuonare la laringe di fiati costruiti con legni rari, producendo un  vento che si impregna dei mormorii della foresta di emozioni. Ti ipnotizza dolcemente, con il sorriso di Erikson; ti porta a scivolare, tu inconsapevole, in uno stato appena alterato della coscienza, in cui il mondo, tutto, diventa quelle sue esatte parole. Poco importa se, invece degli antichi fuochi di fronte ai quali si ascoltavano le storie del mito, ci siano i fari elettrici: la sostanza rimane sempre la stessa. La parola è una grande magia, che danza e volteggia quanto la dionisiaca, coreutica dinamicità della punta delle fiamme. Ogni fonema ha la propria anima, la propria identità; si spoglia dell’equivoco del significato, scavandosi, dolcemente, una strada nell’interiorità dello spettatore.  Lo culla, lo sferza, gli sorride, e lascia l’odore inconfondibile della pioggia, che è stata proprio un attimo prima. Nel raccontare la vicenda di Otello, l’attrice si muove con piede leggero, quasi lèvita: è fatta di un linguaggio serico, prossimo all’invisibilità, ineffabile trasparenza che lascia una sorta di appetito metafisico per l’invisibile, per il misterioso altro.

Come una giocoliera esperta, tiene in aria le sfere della comicità e del dramma, sapendo che il miglior racconto deve avere, fatalmente, entrambi gli elementi, per poter  andare oltre la verosimiglianza, per stabilire un patto narrativo con la platea, un accordo di verità. Nel suo volteggiare tra un personaggio all’altro, tra una cadenza e l’altra, porta in dote, a ogni rapida incarnazione, un senso di enorme misericordia, di compassione, di tenera carezza per ogni protagonista, e non protagonista, di questa storia. Persino Jago, motore primo della vicenda, ha le sue ragioni, che la ragione non conosce. In fondo, tutti, ma proprio tutti, hanno il loro esatto capitale di parole da investire nel testo, e la protagonista ci fa sentir tintinnare  queste monete fonetiche; non ce n’è una che abbia un suono fesso, sono tutte d’oro zecchino. La magica intuizione, condivisa con il regista e co-dramaturg Vacis, vive nel considerare il patrimonio vocale dell’Otello una sorta di livella evocata da Totò, un momento di paritaria comparazione, indipendentemente dalla loquela offerta dall’autore.

Molto raramente si ha la possibilità di assistere ad uno spettacolo di vive, e materiche, parole. E questi concetti saranno pure il flatus vocis del filosofo medievale Roscellino, ma che fiato, signore e signori. Parliamo di un vento leggero, gentile ed educato, di corpi, ognuno con la propria pirandelliana unicità e molteplicità. Ascoltare – non semplicemente udire, ovvio –  questo spettacolo equivale a sentire il morbido frusciare della biglia sul tappeto del tavolo da biliardo: quando tocca una sponda, si sente quel fatale “pac” che ne cambia il destino direzionale, fino al tonfo in buca così necessario, così tremendamente catartico. Veli bianchi in scena arrivano, dritti dritti, da Maya, per concedere alla verità di svelarsi gradualmente in una sensuale, scenografica danza  tessile di Salomè. Ma sono anche vele, o necessarie coperte di Linus, per certi stati d’animo che hanno bisogno di resistere all’oblio dell’impermanenza, che necessitano di sentire e sentirsi per esistere un po’di più, mostrando alla platea tutta la loro umanissima fragilità. E il deragliare della gelosia di Otello, iniettata dalla siringa ipodermica soffiante di Jago, corrisponde all’entropia delle parole, che cominciano a moltiplicarsi, a spezzarsi, a perdere la struttura di trama e ordito, vivendo il momento in cui le esperte mani di questa Penelope scenica disfano la tela, per poi ricomporla all’inizio dello spettacolo successivo. Tutto questo miracolo avviene di fronte agli occhi della platea: ci si accorge che Dioniso non solo continua ad avere una voce importante, precisa, esatta,  ma si declina al femminile, nel sorriso irresistibile, vestito con l’eleganza da grande soirée, di un’indimenticabile Lella Costa.

Danilo Caravà

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