
In principio era il verbo: è sempre così, anche in teatro. Prima viene la parola, a spezzare il silenzio, come farebbe uno schiaccianoci col mallo, e tutto un mondo si apre con quell’abracadabra. È così da sempre, da più di 25 secoli. Caroline Pagani l’ha confermato, ma scrollando di dosso al primo, e a tutti i successivi fonemi, quella polvere di vetustà, di già detto, di automatismo recitativo. Toglie, decisa, il pilota automatico, sin da subito, e guida acrobaticamente il suo aereo verbale. Prima di tutto, fa sentire l’urgenza della storia, la necessità artistica e, insieme, etica di raccontare la luce dell’artista supernova Herbert Pagani; e lo fa come Elettra racconterebbe la storia del fratello Oreste, vibrando della medesima carne poetica, offrendo il suo intero essere al servizio della storia di un artista a tutto tondo.
Lontano anni luce dall’uomo monodimensionale di Marcuse, Herbert ha la carta d’identità di un personaggio rinascimentale, di un umanesimo del Quattrocento incarnato, con stupore, all’interno del tormentatissimo ventesimo secolo. L’attrice si avvale della multimedialità, di oggetti, inserti sonori, canzoni; insomma, di ogni occasione fenomenica per evocare, quasi sciamanicamente, questo eccezionale uomo. Si percepisce, come non succedeva da tempo, l’odore di antiche divinità, di un Dioniso trafelatissimo, rorido di vita e di gioia. In scena si consuma un sacrificio, nel senso originale, etimologico, del termine: si fa sacra la vita, che esplode, in forma lirica, sulla scena. Ha il piglio di un’Antigone, questa Caroline; lo si capisce già dalle prime canzoni, dai monologhi, che rubano il fiato anche all’otre di Eolo. Non vive di grigi, compromessi scenici, impiegatizie strisciate di badge, o prestazioni annoiate e annoianti, al minimo sindacale. Vive di assoluti, dunque che sia l’intero, o sia il nulla.
Torreggia, letteralmente, giganteggia in scena, con le lunghe e scultoree braccia; fatale che esse riproducano un simbolico remigare di ali. Vola alto, e si porta dietro tutta la platea nel suo volo. Il pianista, Giuseppe di Benedetto, si fa piacevolmente contagiare da questa dionisiaca ventralità, in grado di vestirsi, per dirla con Battiato, della grazia innaturale di Nijinsky. Solo brevi sorsate d’acqua sono la velocissima,e limitatissima, punteggiatura di un flusso, di cuore e di coscienza, che farebbe venire il fiatone anche al veloce pensare di Molly Bloom. Il regista, Giuseppe Marini, riesce ad arricchire questo uranio scenico per farne una vera e propria bomba, pronta a deflagrare in direzione del pubblico. Controllo e vertiginosa passione sciolgono, in questa creatura scenica, il loro paradosso, e producono un diamante purissimo, offerto come anima e sostanza di Herbert Pagani. Ma quello che davvero fa la differenza, che si staglia come un sole giallo su di un fondo nero, è l’atto di estrema generosità dell’interprete, che mette a disposizione ogni fibra di sé, per far rivivere l’artista. C’è una parola, nel buddhismo zen, che calza a pennello all’attrice: mushutoku, “senza spirito di ottenimento”.
Il lavoro, anche drammaturgico, di Caroline Pagani, è gratuito, disinteressato, come il vero amore. Semmai, chiede soltanto che sia tolto dalla nebbia dell’oblio un personaggio che ha incarnato, dimensione sempre più rara tra gli artisti, un convinto e sincero engagement. L’ecologia, il pacifismo, il racconto sempre schietto – magari, per questo, scomodo – di ciò che è, prima di ciò che si vorrebbe sia. Come si impenna, la voce; e, a un certo punto, come una frenetica Zazie, dopo aver fatto i gradini a quattro a quattro, l’interprete si volta per qualche istante, aspettando la platea tutta, con uno sguardo libero da sé, che si fa delicato sorriso accogliente. Sono preziose le pause, i momenti di sospensione, dove il tono è nudo, e ha grumi d’anima; dove la verità è molto più vera, in quell’apparente finzione. Quando ci dona Les amants d’un jour (Albergo a ore), meravigliosamente e fedelmente tradotta e cantata dal fratello, lo fa con la delicatezza di certe piogge sottili sottili, che non ti bagnano, ma ti entrano dentro, gocciolando negli atri e nei ventricoli, fino a formare stalattiti e stalagmiti di cristallizzata passione. Ecco la vita in purezza, il suo farsi assoluto, e quel lungo, infinito istante in cui si è in scena; grazie, Caroline, per questa sentitissima e vibrante lezione di teatro!
Danilo Caravà
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