Recensione: “R.A.M.”

R.A.M.

Proust paragona la memoria a una farmacia, un laboratorio chimico, dove puoi trovare medicine dell’anima, nonché terribili veleni. Ma lo stesso succede, quando la memoria viene a mancare; lo sa bene l’autore del testo, Edoardo Erba, che fa deragliare il presente in un futuro distopico, in grado di catturare fin dalla prima scena. La protagonista, Marina Rocco, è presente fin dall’ingresso del pubblico, impressione retinica che rimane costante come la stella polare. E’ una Didone di Purcell, immaginata dopo la sua struggente aria finale: una creatura che ha lanciato il suo desiderio di essere ricordata, ma non può ricordarsi. La memoria, in questo futuro, è in vendita al miglior offerente. Il proletario diventa “memotario”, e vende l’ultima merce, la più preziosa, quella rinchiusa nel suo sanctasanctorum: la sua stessa coscienza. In un geniale rovesciamento, il computer kubrickiano fa bulimia algoritmica di ricordi, e restituisce gli esseri umani  alle “impostazioni di fabbrica”. Stavolta, è la nostra mente a svanire, in una forma definitiva di Alzheimer, scelta, voluta. Solo che il reset non risolve il problema, e la protagonista, all’apertura degli occhi, si ritrova nello stesso samsara, nell’identico mondo delle apparenze; il velo di Maya è ancora una sorta di cataratta, che provoca un continuo fuori fuoco esistenziale. Cartesio trionfa anche in questo mondo futuro, e ridacchia, soddisfatto: il dubbio è sì la propria certezza, ma nella forma di prigione, e l’inquietudine di oltrepassare le maschere pirandelliane diviene lancinante angoscia. Essere, per il personaggio, è davvero l’immediata indeterminatezza di cui ragiona Hegel, portata alle estreme conseguenze; l’io sopravvive al genocidio dei ricordi, come quell’animulavagula e blandula raccontata da Adriano nelle sue memorie.

C’è un continuum mentale che non si arresta, che sente bussare idealmente, alla propria porta, tutti i creditori del karma; la mente è ancora vigile e febbricitante, in un selvaggio abbraccio allo scoglio dei propri attaccamenti. Il regista Michele Mangini alza, fin da subito, la temperatura emotiva all’interno del laboratorio antropologico della scena, come nella storia della rana che si adatta ai continui cambi  di temperatura dell’acqua in cui è immersa, fino a non poterne più uscire. In mezzo a immagini virtuali, proiezioni, schermi accesi che sono lì ad accogliere, nella propria terra di nessuno tra il mondo fenomenico e quello platonico, i vagabondi disagiati del dharma, la vita cerca disperatamente di vivere, e di trovare, almeno nel fugacissimo “qui e ora”,  il proprio ubiconsistam. Cancellarsi non serve: riporta esattamente al punto di partenza, aumenta esponenzialmente l’inquietudine, e rende ancor più urgente la risoluzione di un dilemma esistenziale. L’equazione umana rimane fatalmente irrisolta, e il personaggio si ritrova in cerca non solo d’autore, ma anche della propria memoria. Tutti si muovono freneticamente, e i loro continui avantieindietro dalla scena hanno tanto in comune con il rocchetto dell’Hans freudiano, che mette in scena l’allontanamento-avvicinamento esistenziale; sono un falso movimento, come nel famoso libro di Handke. Le installazioni di Michele Iodice, in grado di moltiplicare efficacemente la presenza multimediale scenica, dimostrano che, se non si può sfuggire a questa caverna platonica 2.0, si può almeno arredarla d’incanto.

Marina Rocco esprime, con struggente convinzione, la ricerca impossibile dei propri ricordi, con la forza di un replicante bladerunneriano. In bilico fra nevrosi e psicosi, è una falena postmoderna, che sbatte le ali della propria volontà contro lo spietato logicismo del Grande Fratello algoritmico. Ogni gesto, ogni fonema, ogni intenzione portano la traccia mnestica, il profumo di un disperante, lancinante bisogno d’amore, e di trovare uno specchio vivente che sappia ricambiare i suoi abbracci. Gianna Coletti è un androide servitore che porta il condimento dell’ironia nella vicenda. E’ una versione cibernetica della serva del teatro comico, in grado di screziare la vicenda con la sua trascinante ironia. La balia di questa smemorata Giulietta ha scelto per sé il vestito dell’uomo di latta del mago di Oz, ma la sua umanità è intatta, anzi iperbolica, in questi nuovi panni sintetici. Giovanni Battista Storti è un medico più astuto e intrallazzante di quelli usciti dalla penna molieriana.  La sua ragione è disarmata dalle ragioni del cuore della protagonista; egli, al pari di un personaggio pirandelliano, sperimenta su di sé che “essere è niente! Essere è farsi.” Alberto Onofrietti è il terzo uomo di Aristotele evocato da Borges, il mistero hitchcockiano messo lì per sparigliare le carte. E mentre, dalla parte della platea, ci si affanna a raccogliere indizi, a favore ora  della sua colpevolezza, ora della sua innocenza, alla fine ci si accorge che anche lui, fondamentalmente, strappa alla sua laringe tutta la sua voglia di esserci, in qualunque modo possibile. Irene Vetere diventa una sorta di doppio della protagonista, l’espressione di quel bovarismo che diventa un errore replicato, generazione dopo generazione, nel codice genetico spirituale. L’abbraccio finale della protagonista con la direttrice del teatro, Andrèe Ruth Shammah, dimostra che ancora batte un cuore, al di qua dello schermo video.

Danilo Caravà

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