
Nel suo adattamento dell’Oreste euripideo, Pablo Solari opta per un ingaggio con il pubblico applicando un linguaggio fermo e riconoscibile, attuando i meccanismi di un gioco meta teatrale che vede i due figli di Agamennone Oreste ed Elettra e l’amico Pilade alle prese con le prove per la messa in scena della loro stessa tragedia. Il primo è, ovviamente, il protagonista e capocomico, Elettra la sua fida prima attrice e Pilade il suo assistente, fedelmente disposto a restare in disparte sino al momento opportuno.
Il ritmo è da subito elevatissimo e irriverente, coinvolge il pubblico con grande ironia, pone l’accento sul dramma dell’attore alla prova e al contempo sottolinea l’estrema necessità di Oreste di raccontare la sua storia. Ne sono prova la meticolosità e la cura con cui si rivolge alla sorella nel darle indicazioni, nel dirigerla. Sembra impazzire in questa impresa, il giovane eroe. Ha un esplicito bisogno di aiuto, di un sostegno più morale che fisico: una sorta di necessità di sentire al suo fianco, fin dai momenti iniziali, la presenza del pubblico in sala, quei cittadini di Argo che dovranno presto decidere della sua sorte di matricida, una volta che da questa dimensione di prova, si sarà gradualmente passati alla tragedia vera.
In questo gioco infantile emergono con meravigliosa prepotenza la fame di emancipazione, di crescita, di maturazione. Esplode la fame di vita. Una fame di vendetta non fine a sé stessa, questo è evidente, ma motivata dal bisogno di difesa del proprio nome e della propria ascendenza. Un bisogno che vince sulla consapevolezza dei rischi in cui i tre incorrono, trascinante al punto da giustificare il bisogno di sangue, di rivolta dei figli contro i genitori, del nuovo contro il vecchio.
C’è, in questo Oreste, qualcosa di Amleto, che supera i suoi dubbi e le sue paure solo per la forza data del bisogno di azione. Argo e i suoi cittadini, presenti in sala, compongono il quadro di una capitale dalle istituzioni politiche vecchie, decadute, prive di un comando vero, affidato ad oligarchi incapaci di ragionamenti inclini al progresso.
Un sistema politico che, quindi, lo teme fortissimamente.
Un quadro drammaturgico insomma che da ampio risalto all’arte dell’attore. Che trasmette una carica energetica pazzesca. Notevoli le prove degli interpreti protagonisti, in questo senso. Oreste (Christian La Rosa) tiene le redini del gioco per due ore senza mai un calo, talvolta puntando addirittura all’eccesso ma senza mai tradire il senso della sua missione. Capaci tutti (Elettra – Marta Cortellazzo Wiel, e Pilade – Andrea Sorrentino) di effettuare cambi di registro molto bruschi, quasi violenti, da un registro all’altro senza mai compromettere la credibilità di una recitazione che esce e rientra ripetutamente dalle trame della tragedia.
E tuttavia, in questa tappa della Santa Estasi, qualcosa non funziona. L’idea registica appare, per quasi tutta la durata della messa in scena, quella di irridere la tragedia in sé. Ovvero di umanizzarla al punto da renderla un gioco di cui sorridere, con l’evidente obiettivo di riportarla sui binari che le appartengono in momenti ben precisi. Un esempio fra questi è stato certamente quello del processo a Oreste di fronte al pubblico in sala, giocato dai due messaggeri in una modalità che somiglia a quella di un grottesco talent show a eliminazione. Al pubblico viene chiesto di scegliere tra la vita e la morte, e quello a cui si assiste è inevitabilmente un voto a favore del protagonista, cosa contraria al necessario andamento della trama. Come non si potrebbe empatizzare con il protagonista, in questo esasperato quadro di giudizio? Ed infatti quando le vicende vengono riportate sui binari giusti il cambio di intenzione dell’intero assetto ne risulta inevitabilmente indebolito e l’incanto generato fino a quel momento, che già di per sé correva in equilibrio su di un filo molto delicato, viene quasi spezzato. E non può bastare un calo delle luci di sala a motivare un repentino passaggio da un registro comico ad uno drammatico, per quanto indiscutibili siano le energie e la bravura spese dagli attori nel sostenere il momento immediatamente successivo alla condanna dei due fratelli figli di Agamennone.
Nello stesso impianto registico appaiono molteplici regie, ma si fatica a individuarne la dominante a discapito del momento catartico, sempre sul punto di giungere ma perennemente smorzato da virate che vanno a favorire citazioni cinematografiche (il party de La grande bellezza) o televisive (i due schiavi frigi che raccontano la tentata uccisione di Elena da parte di Oreste e Pilade, appaiono simili a delle drag queen nel salone di Uomini e Donne). Fino a giungere a un deus ex machina risolutore che per estetica non convince, essendo la scelta quella di far somigliare Apollo ad un araldo elisabettiano con tanto di gorgiera al collo.
Insomma, non è chiaro l’intento. Ciò che ne scaturisce è il pensiero che a una grande generosità degli interpreti, non sia corrisposta una cura esterna veramente capace di trasformare il sangue e la fame in qualcosa di estremamente puro e risolutore.
Dario Del Vecchio
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