Recensione: “Tutta casa, letto e chiesa”

Tutta casa
foto Stefano Sgarella

Bisogna avere una seconda, anzi una terza anima a disposizione, per interpretare tre monologhi. Bisogna, direbbe il buon Jannacci, avere orecchio, per cogliere il tono del personaggio, il giusto swing, ed aleggiare sui tasti della laringe con la levità, naturalezza, precisione e velocità di un Charlie Parker. E Monica Bonomi riesce in tutto questo: con quegli occhietti guizzanti da furbo furetto, quella voce duttile che si plasma con naturalità a seconda dell’occasione scenica, ci riesce benissimo. Vive, letteralmente, con i testi di Franca Rame e Dario Fo una vera, unica, affinità elettiva. E’ tutta lì, Monica, sul palcoscenico, a giocarsi fino all’ultimo respiro, a fare della vita femminile un meraviglioso giocoserio; e tiene in equilibrio, con un esercizio altissimo, come fanno i grandi poeti, la risata ed il dramma, Talia e Melpomene, la commedia e la tragedia.

Poi c’è quella bocca, quel sorriso che, distorcendosi, diventa uno spazio non euclideo: regge i fiati della platea come Atlante il cielo mitologico, si porta il peso del mondo e dell’esistere.  Il corpo, offerto per la nuova ed eterna alleanza con lo spettatore, si agita, si piega al pari di una rana galvanica, si muove con certi passettini da nevrotica geisha suo malgrado, o col passo furioso di una baccante, pronta a divorare tutto l’universo in un sol boccone. Loris, il regista dello spettacolo, rende il parto dei tre personaggi così naturale, che non serve alcuna epidurale di effetti scenici per lenirne il dolore. Qui, il centro di tutto è l’attrice: nel corpo, nell’anima e nella voce, essa stessa un ulteriore corpo. Li potresti persino toccare questi fonemi, tanto sono concreti; pennellate grumose, materiche, che rendono la visione del quadro scenico una potenziale esperienza tattile. Nel primo monologo, una desperate housewife, una donna ben oltre l’orlo della crisi di nervi, un Anna O. che ha perso la fascinazione narrativa della nevrosi freudiana, combatte la sua battaglia quotidiana con una realtà che le si schiaccia addosso.

Nella gabbia di un interno borghese, si consuma una tragicommedia, dove, per una eccezionale alchimia, la grottesca comicità del finale di partita beckettiano si fonde con l’imperiale ironia di una Vitti, nel giardino domestico della commedia all’italiana. Nel ridotto di resistenza di un appartamento è fatalmente irrinunciabile che, deliberatamente, la pala del Prigioniero della seconda strada di Simon perda la sua pudica veste ironica, e diventi un – molto meno politically correct –  fucile, pronto a sparare ai buñueliani fantasmi della libertà. Nel secondo, la donna engagée, creatura ibrida di Aristofane e Godard, rievoca  una maternità senza un filo di grasso retorico, raccontando, con la lama occamiana di una erre blesa, il rapporto tra madre e figlia, dove la bambola abbandonata e ritrovata fugge dal racconto di Sartre, e diventa l’indispensabile anima “cattiva” del Sezuan, per sopravvivere nel mondo patriarcale, che ha molto poco di quello à la Doris Day. Nel terzo, Medea si colloca nella dimensione di un  testo in volgare del 500, che ti scotta, insieme, le mani e il cuore .

C’è tutto il vino rigurgitato di carne dalla gola del Ciclope, in questo testo scenico così scomodo, mostruoso, eppure così vero, necessario, con la fascinazione irresistibile degli odori forti, del sangue raggrumato, delle storie di nera che non si può fare a meno di ascoltare. Medea è la catarsi dei tre monologhi: la luce furiosa, irrazionale, da Lupa verghiana di una madonna che può fare denso il suo sangue, fino a renderlo magma, pugnale affilato da affondare nel petto dell’ipocrita. Quanta devastante polvere si trova, in questo lavoro teatrale, mostrata sotto il tappeto di esistenze femminili schiacciate dal tallone di un’apparente ed asfissiante “normalità”. Monica, nella sua recitazione gravida di senso e di vita ad ogni istante, sente tutta la necessità etica dello spettacolo, e, orfana del firmamento di stelle kantiane, si inventa un cielo morale capovolto dentro di sé. Si ribella all’inferno sartriano degli altri, degli uomini, che parlano un linguaggio pre-verbale, con grugniti e suoni da primati, mentre lei diventa una dissonante Lucy in the sky with diamonds. Racconta il suo impossibile over the rainbow con quella voce umanissima, spezzata, tragica, in grado di strizzarti il cuore, di una Judy Garland giunta alla fine della sua forzata casa di bambola e, insieme, della sua vita. Gioco, set, partita: in tre set la protagonista vince, e si merita tutto il generoso capitale di applausi.

Danilo Caravà

Be the first to comment

Leave a Reply

Your email address will not be published.


*