Il poeta Thomas Gray, nella sua elegia, si interrogava su quanti potenziali Milton o Dante potessero esserci nel cimitero di campagna in cui si trovava, ma, in questo caso, si potrebbe tranquillamente affermare che una casa Aler del Giambellino può nascondere la più alta forma poetica. Alla periferia dei santi, là dove il cemento mangia l’anima alla campagna, vive una donna che non ha niente da invidiare alle eroine tragiche. Tutto si consuma in una stanza, e le piastrelle di un tinello sono la skenè di questa scena, che ancora regala brividi profondi agli dèi che la osservano. Il personaggio porta in dote, nel suo codice genetico drammaturgico, la più profonda essenza testoriana, la testimonianza di una Milano che trovava un suo calore da contrapporre alla scighera, alla nebbia e allo smog. E poi c’è quella voce grattata che sa di asfalto, di catrame appena gettato, ancora fumante di rabbiosa vita. Sono fonemi che olezzano di un’esistenza fatta di minestrone della domenica, di canfora messa negli armadi per non far tarlare gli abiti; sono parole che portano l’odore delle case degli anziani, che sembrano fatte apposta per appenderci i ricordi più remoti. Qui abita una creatura di Euripide, che deve confrontarsi con il tram, e i soldi nel borsellino che non bastano mai.
L’atto del ricordare diventa nuovamente carne, e il passato è lì, in quella battuta che brucia la gola, ma urge; necessita di essere liberata, di farsi scenografia della vita che, strappata con le unghie e con i denti dal passato remoto, ritorna prepotentemente al presente. Considerate la vita di una donna, una donna qualsiasi, con gli zigomi segnati, come scogli, dalle onde della vita: di quell’anziana che, distrattamente, si osserva, mentre combatte con l’armatura ammaccata delle sue ossa per fare la spesa; ecco, la protagonista è una donna così. Ne ha da dire, sul conto degli dèi e sul suo destino, mentre sorseggia una tazza di caffelatte, o prepara una valigia con lo spirito della donna ebrea del Brecht di Terrore e miseria del Terzo Reich. È una lupa che ha ancora i denti buoni, e azzanna ancora questi bocconi di vita; ci ricorda che Ecuba, Medea, sono lì, magari sullo stesso pianerottolo, dietro un doloroso sorriso impreziosito da rughe. Qui Dioniso è di casa: qui la ventralità, la recitazione di pancia sono l’irresistibile energia vitale, e allora si scopre, per la prima volta, che cosa sia veramente la catarsi. Allora, Aristotele ti scoppia in faccia in tutta la verità, quella più forte, perché si iscrive contemporaneamente nel corpo e nell’anima.
Questa è la vita che grida se stessa con determinazione, che non si limita a guardare la platea, ma l’abbraccia, e insieme la colpisce, con una serie di uno-due pugilistici in grado di metterti felicemente al tappeto. Dalla parte degli spettatori, si sente tirare su col naso, si avverte quell’onda salmastra di emotività che si libererà da un momento all’altro. Ivana Monti si immerge tutta nel personaggio, lo fa vibrare nella carne; e nella carne si ritrova la teologia più vera e più preziosa, come accade nei corpi di Caravaggio, la cui spiritualità passa da quei corpi di vita vissuta, autentica. E, a un certo punto, da questo corpo d’attrice si eleva un urlo. Un urlo del personaggio, suo, della platea; un grido capace di trasumanare, di racchiudere, nella più poetica e struggente intuizione emotiva, il senso ultimo della tragedia. E’ la voce di chi non si arrende, della sconfitta che non è sconfitta perché l’umano ancora si rialza, anche se ha i tacchi dei coturni rotti, anche se dovrà lasciare il posto in cui è vissuto per tutta la vita, anche se il cuore ha più crepe e umidità dei muri scrostati di una vecchia casa Aler. Quanta vita, in questa attrice; e non quella di plastica, rifinita, inamidata, di certe laringi che si bagnano giusto i piedi con il getto delle loro emissioni vocali, ma quella che ride, piange, si arrabbia, quella che ha tutti i sapori, dai più dolci ai più amari, dell’esistenza.
La Vincenzina di Jannacci non è più davanti alla fabbrica: ha lavorato in una portineria per 10 ore al giorno, e i suoi capelli hanno preso il colore di certi cieli invernali di Milano. Non abita, come la Gilda, in Mac Mahon, vive al Giambellino; ma come lei, e come la Clitennestra della Yourcenar, ha amato ad occhi chiusi, e pianto con gli occhi ben aperti. Il regista Giampiero Rappa ha arazzato questo personaggio attraverso l’attrice, ha dato fuoco alle polveri, ha permesso a questa santabarbara di esplodere tutta la sua dionisiaca emotività. Ha intrecciato, come la più esperta merlettaia, i fili del personaggio con quelli dell’anima di Ivana Monti. Il risultato è negli occhi della platea: un monologo che ti inchioda lì, sulla poltrona, e che, in certi momenti, ti solletica la schiena come solo sanno fare certe emozioni che arrivano fino alla nuca, come una spuma elettrica. L’autrice, Roberta Skerl, ha creato un personaggio, una everywoman, che, al pari dell’Epicuro lucreziano, solleva il naso dai marciapiedi e dai caseggiati di Milano, e squarcia il cielo con la sua cadenza milanese, che slarga il cuore: una lingua in grado di narrare, con più dettagli e maggiore verità, quell’anima che fatalmente sfugge alla lingua condivisa. Gli applausi sono scrosci di una pioggia intensa, necessaria, meritata, che l’interprete si prende con l’ombrello chiuso di un pudore e di un grazie, ulteriore valore aggiunto a questa superlativa prova d’attrice.
Danilo Caravà
Abbiamo assistito a Rho (Mi) a questo spettacolo. Ivana Monti straordinaria, la ricordavo giovane come appariva tanti anni fa in TV. L’ho trovata ancora più affascinante.
Uno spettacolo molto bello, perché ricco di aneddoti storici che non conoscevamo, uno stimolo per conoscere avvenimenti e personaggi
Monologo che ha dato più di uno sguardo al passato, ma con le problematiche di oggi.
Abbiamo riso, ma con un amara tristezza, pensando che a volte veramente i nostri anziani dopo aver vissuto delle esistenze difficili, si ritrovano soli e incompresi.
Veramente tantissimi complimenti.