Ti strappano il biglietto, entri in sala e ti accomodi, intanto puoi osservare gli attori sparsi sul palcoscenico impegnati a svolgere alcuni esercizi di training prima che lo spettacolo abbia ufficialmente inizio… o forse lo spettacolo è già iniziato? O forse, lo spettacolo, non finisce mai?
Il celebre romanzo di Luigi Pirandello “Uno, nessuno e centomila” incontra il teatro nel riadattamento di Roberto Trifirò in scena presso il Teatro Sala Fontana.
Si sa, nella poetica pirandelliana l’elemento teatrale è essenziale, non solo per quanto riguarda le sue opere drammatiche tout cour ma anche per la visione stessa dell’uomo che si scopre burattino o attore coatto, con la maschera soffocante imposta dalle convenzioni sociali.
Questa tematica emerge in maniera drastica ed evidente in “Uno, nessuno e centomila” che Pirandello stesso definisce come il suo romanzo “più amaro, profondamente umoristico, di scomposizione della vita”: il percorso del protagonista Vitangelo Moscarda, interpretato da Roberto Trifirò, consiste in una inesorabile frantumazione della propria identità. Una banale osservazione sul naso storto, la scoperta di un “doppio” Moscarda finora sconosciuto a se stesso, una serie di riflessioni illuminanti portano a una tragica conclusione: “Chi era colui? Nessuno.” Ma non solo, Moscarda deve affrontare lo sdoppiamento, anzi, la moltiplicazione della propria identità tante sono le persone incontrate. La missione che si prefigge per distruggere i centomila estranei che ha scoperto in se stesso si trasforma in una minuziosa e tormentata analisi della percezione di sé e della realtà, precipitando nell’infinito vortice del relativismo e trovando la via di fuga in un “riso da matto”.
Follia e lucidità, libertà e manicomio, disperazione e salvezza, individuo e società, i dualismi pirandelliani sono ben noti a Trifirò, che ha già portato in scena le opere del Maestro siciliano “Non si sa come”, “Il piacere dell’onestà”, “Piccinì” e “Notizie dal mondo”. Impegnato nel progetto di ricerca “Pirandello files”, prodotto da Elsinor, Trifirò prosegue l’indagine pirandelliana sull’identità, che qui esplode fino all’incredibile: ecco allora non una, ma due attrici interpretare la moglie di Moscarda (Federica Armillis e Laura Piazza), alla terza attrice del cast spettano solo ruoli maschili in un continuo trasformismo (Emanuela Villagrossi) e l’altro attore presente in scena interpreta personaggi dai tratti grotteschi (Alessandro Tedeschi). Vitangelo Moscarda, a sua volta trottola in un mondo confuso che si sgretola nelle sue certezze fondamentali, si preclude ampi spazi di ragionamento personale mentre si rapporta con gli altri, è ormai assente, solo e diverso rispetto alla società che lo circonda. Gli altri spesso si immobilizzano in pose fotografiche, oggetto di studio e riflessione per Moscarda e non personalità con cui confrontarsi. Se tutti vestono abiti dai toni grigi, lui sarà l’unico a indossare un’eccentrica e vistosa camicia gialla. Estraneo a quel mondo di cui percepisce così tragicamente l’assurdità, Vitangelo si muove in un ambiente talvolta quasi astratto: sfruttando pochi elementi scenici (qualche sedia, un tavolo) e ricorrendo spesso ad effetti di controluce, la scena appare rarefatta e le figure si stagliano come ombre eleganti e sottili, oniriche e sospese. Ancor più fantastica è la parentesi dedicata alla vicenda di Marco di Dio, raccontata tramite l’escamotage delle ombre cinesi: anche la vicenda umana dai risvolti più duri e drammatici appare ora come una specie di fiaba (i costumi e le scene sono di Barbara Petrecca, il disegno luci di Toni Zappalà).
Paradossale antitesi moderna di Don Chisciotte, l’epopea di Moscarda si conclude nella calma lettura delle pagine originali di Pirandello, soddisfatto e pacificato della condizione di vinto / vincitore che ha ottenuto: “Vitangelo resta così al di là dello specchio che è finalmente riuscito a varcare, come una seconda Alice di Lewis Carroll” (Roberto Trifirò).
Beatrice Marzorati
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