Recensione: “Zio Vanja”

zio vanja
foto Luca Del Pia

Può capitare che la temperatura del samovar si sia sensibilmente abbassata e che, conseguentemente, il tè di questi piccolo-borghesi sia necessariamente freddo. Non più scaldato da certe esegesi di messa in scena, legate a un filone di “malinconismo” che fraintende la scrittura cechoviana, può raffreddarsi al clima interpretativo brechtiano, per trovare nuove chiavi di lettura. Con buona pace di Saint Exupéry, per una volta, l’essenziale è ben visibile agli occhi: non c’è bisogno di caricare la scena di qualche salotto fine ‘800 da dramma borghese, qualche posto per sedersi dalla parte del torto, o da qualche altra. Bastano pochi metri di luci da camerino off Broadway ai lati, e una poltrona da barbiere dove si può fare la barba, con il rasoio di Ockham, a tutti i barbosi “già detti” dello zio Vanja.  Dopo i 33 svenimenti mejercholdiani, ecco uno spettacolo che porta i sali, perché questi esseri biomeccanici possano trovare, o almeno cercare, un loro dio, come il replicante di Blade Runner.

In fondo, il segreto sta in quel particolare ritmo sincopato, che sembra preso in prestito dal jazz, da quella particolare capacità di spezzare la pigra linea temporale, e tirarla, allungarla,o accorciarla, come fosse un elastico. Walter Benjamin l’aveva spiegato molto bene, parlando dell’essenza del teatro brechtiano; la magia sta nell’interruzione, nello spezzare l’incantesimo, l’abracadabra del teatro aristotelico, che sembra fatto apposta per zombizzare lo spettatore verso l’inevitabile catarsi. Qui, invece, si riflette, si dà voce alle didascalie, si dissolve il rapporto tra attore e battuta pronunciata. Si doppia, si mima, si riporta la parola alla sua dimensione quotidiana;  la si riscopre irridente, nevrastenica, adulta o infantile all’occorrenza. Zio Vanja è un clown tragicomico, dinoccolato, burattinesco, ma così profondamente umano che nemmeno il troppo nietzschiano potrebbe definirlo completamente. La regista Simona Gonella fa bene ad andare ostinatamente in direzione contraria rispetto a quella digestione, difficile, di certe scene, abituate ad abboffarsi di patè de bourgeoisie. Ogni volta sceglie una strada diversa, decide  di dimostrare una geometria non euclidea, e di sorprendere, a ogni svolta, lo spettatore; ora optando per  epicità e terzopersonalizzazione, ora, nei momenti giusti, riportando la prima persona a coordinate che nemmeno il più convinto Strasberg potrebbe raggiungere, proprio nel cuore di tenebra, dove c’è sempre pronto un Kurtz  cui poter offrire una tazza di tè. Crea una meravigliosa trappola meccanica e, insieme, spirituale, in cui, fassbinderianamente, i personaggi si fanno cannibalizzare l‘anima dalle proprie paure, mentre la vita non vissuta è la parte, nascosta, dell’iceberg contro cui vanno a sbattere le loro maschere piccolo-borghesi. In questa camera delle torture, i personaggi si affaccendano per cercare di “bottinare”, con pazienza da imenottero, quel poco di polline che riescono a trovare, e si inventano anche quello che non c’è. Stefano Braschi è un Professore grottesco, con indovinati toni irridenti da Paolo Bonacelli. Maschera nuda e cosciente, si lamenta della propria bua esistenziale, mentre “veste la giubba” giusto per la scena del commiato finale. Stefanie Bruckner è un’Elena brechtiana, prima nell’accento poi nei gesti, divisa tra l’essere l’anima buona o cattiva di questo Sezuan, momentaneamente prestato ai paesaggi russi. Stefania Medri è una Sonja che esprime tutta la verità adolescenziale del suo personaggio e rivivifica, con dei sani pugni in tasca, il famoso monologo finale, riempiendolo della verità di dolore del cri de guerre,in bilico tra la preghiera e la bestemmia. Anna Coppola si sdoppia, anzi si triplica, come Balia, come Maman, nonché come  voce di didascalie che fanno, brechtianamente, i conti con l’essenziale della messa in scena. Diventa anche una sorta di  superomniscient narrator, una voce che la sa lunga sulla trappola per topi in cui sono caduti i personaggi.

Woody Neri è un Vanja straniato e stranito, insieme clown bianco e augusto, personaggio beckettiano che gioca, ed è giocato, nel suo finale di partita. Marco Cacciola è un dottore che mostra, epicamente, di aver guadagnato una sua coscienza attorale sulle battute del personaggio, e la esprime con abilità alla platea. Donato Paternoster è un Telegin diversamente abile, un minus habens che gira tra le scene, mostrando l’assottigliarsi e il semplificarsi di una coscienza che, almeno, evita di ritorcersi nei sillogismi della propria sconfitta. E’ una sorta di vendetta incarnata contro i pugni in tasca di Bellocchio. E’ piacevole, dalla platea, verificare come ci sia del metodo poloniano, in questa ovattata follia cechoviana. Ogni scena, ogni quadro, ogni battuta sono il risultato di un deliberato esperimento chimico, sociale, antropologico. Si vede distintamente il lavoro di creazione e rifinitura di ogni passaggio, che rifiuta, a meraviglia,  le comode strade già battute e ribattute. Merita, la rappresentazione, tutti gli applausi ricevuti, mentre il samovar si staglia come un idolo, un totem, sopra gli interpreti: immagine meccanica, metallica, residuo in sospensione di ogni possibile deus ex machina.

Danilo Caravà

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