A volte uno spettacolo si ispira ad un fatto, a volte ad un personaggio, a volte ad un altro testo. Quasi mai si ispira ad una voce registrata su nastro. Quindi, sin dalla premessa, questo “Gianni” presentato nelle scorse settimane, si propone come un’anomalia nel panorama della nuova drammaturgia.
“Gianni” è Gianni Pampanini, il vero zio della protagonista e autrice Caroline Baglioni. Un ritrovamento casuale di alcuni nastri, sui quali Gianni aveva inciso la sua voce prima di morire suicida, ha fatto scattare la scintilla dell’ispirazione nella giovane autrice.
Un’ispirazione lunghissima, coltivata nell’arco di più di un decennio, durante il quale la Baglioni, ascoltando ripetutamente quei nastri, ha ridisegnato la figura dello zio e di conseguenza la sua personale relazione con lui. Una relazione che è diventata reale solo quando lo zio non c’era più.
E quindi il gigante di tre metri (così lo vedeva la Caroline bambina), che così tanta paura le faceva, con i suoi problemi maniaco – depressivi, tutto malattia, dolore, gioia improvvisa, sogni irrealizzati e sigarette sempre accese, riprende forma umana attraverso il sorprendente e meraviglioso atto di trasformazione scenica messo in campo dall’autrice.
Un atto di trasformazione che diventa un atto d’amore, trasferito nell’anima e nel corpo. Si sottopone ad un notevole sforzo fisico, la Baglioni, nel trasportare ed indossare decine di scarpe spaiate, nessuna delle quali è adatta a lei, così come, metaforicamente, nessuna vita era “indossabile” dallo zio.
E dentro quelle scarpe troppo larghe, troppo strette, troppo rotte, con troppo tacco, la Baglioni rimane un’ora abbondante, decostruendo il suo corpo e diventando suo zio, con una tenuta del personaggio, così distante da lei, da esibire come esempio nelle scuole di teatro. Non cede un istante, Caroline, maneggiando di continuo sigarette e oggetti inesistenti ma perfettamente credibili, parlando di donne, di sesso, di paura e di dolore. Un viaggio nell’inferno del disturbo mentale e del disagio, condotto con cura e rispetto costante.
E il viaggio di Caroline è ben riconoscibile anche nel percorso registico di uno spettacolo che sembra partire come teatro di parola ma che poi all’improvviso si trasforma in qualcosa che va vicino al teatro – danza, con un reiterarsi di azioni simboliche condotte con raffinata e disperata eleganza di movimento. Ed è qui che l’autrice si libera dalle catene dell’ordinaria narrazione interpretata per trasformare il suo lavoro in una drammaturgia del corpo, in un racconto muto della luce scenica e delle sue ombre, con momenti di autentica poesia visiva che contribuiscono a ricostruire da zero e a restituire al pubblico una relazione mai realmente esistita e forse, proprio per questo, ancora più vera.
Manca forse nella drammaturgia un approfondimento della parte femminile, di quella parte che è Caroline stessa, così importante in questa non – storia, ma è certamente un peccato che si potrà correggere nel tempo, posto che l’autrice ne avverta la necessità.
Rimane l’ammirazione per un lavoro che coniuga magistralmente parola, corpo e fantasia e che meritatamente si è portato a casa premi di grande rilievo, come Scenario e In-box. E che, altrettanto meritatamente, è stato votato dai lettori di MilanoTeatri come “spettacolo del mese”.
Massimiliano Coralli
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