Recensione: “Barbablù”

barbablù
foto Alvise Crovato

Fa impressione vedersi esplodere, dalla parte della platea, il teatro della crudeltà artaudiana di fronte agli occhi. E’ quello che succede con questo spettacolo, dove le sensazioni olfattive, di carne e di sangue, sono freudiane soddisfazioni allucinatorie del desiderio di Barbablù nascosto in ogni singola coscienza. D’altra parte, era proprio Artaud ad aver ricordato che l’atto creativo nasce per trovare una via d’uscita dall’inferno. Un uomo e una donna sono corpi ideali, assoluti, liberi dagli organi, al pari delle antiche mummie egizie, abitati da un’instancabile voce; nonché da una galvanica o frankensteiniana carica elettrica, ed una crudeltà, in grado, come un veleno di Mitridate, di intossicare dolcemente.

Non poteva mancare la colonna sonora beethoveniana, da cinebrivido, in grado di provare piacevoli vibrazioni al bassoventre: stimolante burgessiano, da sempre, per il beneamato esercizio della ultra-violenza. Il male non è più semplicemente banale, ma è una malattia cronenberghiana, che passa attraverso la carne degli interpreti attraverso i loro fonemi, rasoi in grado di far sanguinare l’aria che attraversano. Per questa pièce bisogna trovare, letteralmente cartografare, una nuova categoria filosofico-esistenziale, non più metafisica, ma ultrafisica: l’esercizio costante di un corpo capace di ritrovare tutto il suo potenziale sciamanico, esoterico. Sembra di assistere a una sorta di rito teurgico contemporaneo, di quella possessione divina, incarnata dalla brasiliana candomblè, ispirante per Fersen, e per tanti altri esponenti teatrali. Abitati da oscure divinità, gli interpreti vaticinano la violenza e tutte le declinazioni del male, senza dover ricorrere ad alcuna grandguignolesca macelleria messicana, ma con il potere tonitruante della voce, e di una coreografia spietatamente biomeccanica. E questi esseri, parafrasando i replicanti di Philip K. Dick, hanno fatto cose per cui il loro personalissimo dio della biomeccanica non li assolverebbe.

È geniale l’ ”inventio” degli scampoli di tessuto, oggetti in grado di plasmarsi in molteplici forme sulla scena, sublimazioni teatrali della carne lacerata, delle stracciate membra di un’umanità passata attraverso il trita-carne della violenza universale: teste, gambe e braccia diventate “beefsteak tartare” di una nuova, riscritta canzone dei cannoni. Anche Brecht fa capolino in questo lavoro, attraverso lo straniamento, il gioco dichiarato di trasformazione scenica, il gesto che diventa sociale, insistito, grassettato, sincopato, pinzettato negli istanti scenici, come un insetto maneggiato dalle sapienti dita di un entomologo. La drammaturgia di Sonia Bolognini trova la via dell’affabulazione, della reiterazione, dei cortocircuiti freudiani del linguaggio, in grado di svelare le pareti dipinte di nero dell’inconscio. E la regia di Michele Losi va a dettagliare su ogni singolo istante scenico, lo massacra di ginnastica sacra, come un tenente Hartmann pronto a far sparare, dalla bocca dei suoi eccellenti soldati, fonemi blindatissimi, full metal jacket. Benedetta Brambilla – con un incarnato uscito da un quadro di Schiele, dove la carne ha un dialogo tragico con le ossa – sputa tutta, ma proprio tutta, l’anima sul palcoscenico, proprio come il capitano Achab espettora il suo odio su Moby Dick. Sebastiano Sicurezza è un meraviglioso rock-and-roll robot dal volto biblico, un meccanismo ad orologeria ancora più efficace di un’arancia meccanica.

Questi Hansel e Gretel, persi nella zona più oscura della nostra psicologia del profondo, vanno decisamente dove non si tocca; si fanno venire i crampi fino ad annegare, deliberatamente, nel vasto mare di parole e di movenze del testo. Sono angeli portatori di luce, proprio come Lucifero, e, a ogni frase, dimostrano dolorosamente, attraverso un parto decisamente podalico, quanto sia preferibile regnare all’inferno, piuttosto che servire in paradiso. Il male, attraverso questo lavoro teatrale, ci è più vicino della nostra stessa giugulare. Ma il sempiterno gioco catartico del teatro è in grado di sublimarlo. D’altra parte, i fiori del male, Baudelaire docet, hanno un fascino irresistibile, e grondano, al posto della rugiada, poesia dai loro petali. Lo stesso fanno gli interpreti, che ritrovano persino un paio d’ali, quando si uniscono nell’uovo cosmico di un abbraccio che li redime; non più “animulae vagulae et blandulae”, non più belve, ma creature poetiche che hanno occhi grandi grandi da offrire alla platea, come nei quadri della pittrice Margaret Keane.

Danilo Caravà

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