Recensione: “Accabadora”

accabadora
foto Marina Alessi

Molte delle cose che accadono non sono che la parodia delle cose pensate, per questo transitare una vita sul liminale della morte porta a circoscrivere l’esistenza in prese di coscienza che non hanno a che fare con l’immaginato.
D’altra parte, non tutto s’immagina per comprenderlo subito.
Le misure con la vita, e con chi di questa si cura, si prendono col tempo, e mai da soli.

Accabadora, adattamento scenico dell’omonimo romanzo di Michela Murgia per la drammaturgia di Carlotta Corradi, tratta di questo. Di una bioetica antropologica che parla la lingua della brutalità naturale e ancestrale, prima che questa fosse oggetto di sovrastrutture di pensiero contemporaneo.
In scena c’è Anna Della Rosa che impersonifica Maria Listru “l’ultima, la quarta” di una progenie che è il frutto “della povertà di una donna e della sterilità di un’altra”. Nella ricostruzione drammaturgica del romanzo, Anna Della Rosa inscena una vita in quadri narrativi dalle ricadute enfatiche e crescenti.

Posto che riplasmare quanto già funzionale dal punto di vista della creazione artistica costituisca atto superbo, la via da seguire resta quella della ricerca del giusto contesto, dell’insediamento del seme nel terreno che si intravede fertile. Ma per riuscirvi, replicando il miracolo dell’arte, occorre fertilizzare con hummus di bios. Ed è in questa audace impresa che riesce la regia di Veronica Cruciani.
Il palco ospita il noto ma ragionevolmente ridotto intreccio del romanzo noto, ciò che è inedita è l’immersione nell’agere scenico che assume una ritualità naturale grazie alla veridicità immaginifica delle sinestesie registiche.
La scena essenziale ricostruisce “le case prima che le strade per arrivarci”, sa tessere gli isolati di un andirivieni narrativo che riportano agli snodi cruciali delle cose che si fanno e le cose che non si fanno.

Ma cos’è che rende fattibile il fattibile e infattibile ciò che, alle volte, è necessario? Come si prendono le misure di ciò che, molto spesso, è meglio non misurare?
Come si sperimenta la sete di una vita abortita in vita, senza essere riconosciuti nell’infanzia dei soli, mentre si sente quello che non ha voce finché non ha compagnia?

Come se la vita e le cose che accadono bastassero a se stesse per capitare, come se ciascuno bastasse a se stesso per venire al mondo e disvelare che il lutto della vita è solidale alle solitudini dell’umanità che non sa dirsela.

Alessandra Cutillo

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