Recensione: “La fattoria degli animali”

animali
foto Davide Mariani

Per avere un certo grado di disillusione nei confronti del più puro e sincero spirito rivoluzionario, basterebbe rileggere certi passaggi di cronachisti della Rivoluzione francese, o lo spietato pragmatismo con cui un giovane Napoleone guarda l’attacco della folla giacobina alla residenza reale. Le proposte politiche, fintantoché se ne stanno nel tranquillo e pacifico mondo iperuranico delle idee, sono sinceri aneliti di libertarismo, uguaglianza e democrazia; tuttavia, quando precipitano, come il più maldestro degli Icaro, sulla terra del compromesso e delle degenerazioni (la “faex Romuli”,“feccia di Romolo” secondo Cicerone), si sporcano di burocrazia e sopraffazione. Lo sa bene Orwell, che costruisce, con “La fattoria degli animali”, un pamphlet riuscitissimo, e di comprensione immediata; un’opera in grado di esprimere con efficacia didattica, di stampo brechtiano, come un socialismo reale possa, macchia dopo macchia, diventare il perfido mister Hyde dello stalinismo.

E lo sanno ancora meglio gli interpreti di questo adattamento, che hanno leggii dotati di ruote, per costruire politiche e paradossali convergenze parallele, per destabilizzare i piani di fruizione; per indicare, in buona sostanza, l’autoscontro di ogni gioco di potere politico, nel quale i buoni propositi cozzano con la spietatissima realtà della Realpolitik. Il degenerare della rivoluzione quadrupede agreste nella più nera autocrazia suina, è reso splendidamente in questo lavoro teatrale, dove le voci sono quelle di un popolo che passa da un giogo all’altro, e impara, a proprie spese, la lezione gattopardesca del “bisogna che cambi tutto perché non cambi niente”! Anche un microfono diventa voce: sia della propaganda, che della riflessione saggia di chi si accorge che, invertendo i fattori (in tutti i sensi),  il prodotto politico non cambia. C’è davvero del buon Brecht sulla scena, quello che riesce a spezzare il confortante sbocco catartico della tragedia aristotelica, per portare la platea dall’immedesimazione  alla riflessione, alla constatazione di come si possano dedurre, da questo teorema politico, conseguenze infauste. L’attenzione, giustamente, è capitalizzata sui tre attori, che, con fregolistica maestria fonetica e posturale, passano ad interpretare la lunga galleria degli animali della fattoria, perché non ci siano distrazioni, o inutili orpelli. La storia si incarna nella triade di interpreti, letta, recitata, agita, vissuta fino all’ultima sillaba.

E sorge il sospetto che il comportamento finale sopraffattorio, al pari, se non peggiore, di quello umano, più che una malattia, sia un graduale disvelamento dietro la maschera rivoluzionaria. Mentre un’impalcatura, dotata di megafoni, è la migliore espressione sintetica della propaganda, di quella goebbelsiana bugia che, a furia di essere ripetuta, diventa verità, mentre le la giusta legge scritta viene emendata nel tempo, fino a stabilire gradi differenziati di uguaglianza per alcuni animali. Giovanni Battista Storti, anche regista dello spettacolo, si muove con un’indovinata stanca agilità sulla scena, e bene riesce a interpretare la parte dei “vieux rois” quadrupedi, dei re Lear, svuotati dal potere, arrivati al loro finale di partita, giunti all’estrema saggezza, dopo aver consumato, dietro le quinte, tutto il loro capitale di follia. Annig Raimondi giganteggia nel personaggio della cavalla Berta, mostrandoci tutta la cognizione del dolore dietro la realizzazione rivoluzionaria. Ha sempre la capacità di esprimere lo scorrere di intere stagioni in ogni singolo fonema, di esprimere il peso del dover sentire, di pessoana memoria. Ha un’anima speciale che si fa, nella laringe, primavera ed autunno insieme, in una meravigliosa sovrimpressione.  Riccardo Magherini trova la sua potente ouverture interpretativa nell’incarnare il maiale capo-dittatore Napoleone, piegando la voce con maestria alle esigenze della retorica politica, della spietatezza di un essere che non ha avuto occasione di incontrare il buon dio di sartriana memoria. Tutti e tre gli interpreti si trovano a loro agio sul palcoscenico, e divengono, loro stessi, scenografia, luce. Mentre il nero caravaggesco che insidia, da vicino, i punti luce dedicati al trittico, diventa la migliore metafora di una politica destinata a diventare un gioco di potere; da un’orizzontalità di eguaglianza, dove gli animali si muovono come molecole scaldate dal calore rivoluzionario, a una verticalità in cui sopra stanno i maiali, e sotto tutti gli altri. Meditate, gente, meditate!

Danilo Caravà

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