
L’eteronimia dell’uomo, il suo essere, pirandellianamente, uno, nessuno e centomila, sono al centro di questo stupefacente lavoro teatrale. Ma qui gli eteronimi non sono quelli pessoani, sublimati e bonificati nella confortante camera di decontaminazione della letteratura. Quello che si evoca, in questo caso, passa decisamente dai territori della crudeltà artaudiana. E la felicissima intuizione coinvolge la dichiarata dimensione metateatrale, quella di un gioco maledettamente serio, brechtiano, dove si dichiara il “due punti aperte le virgolette”. Lo straniamento vive una vera e propria affinità elettiva con quello del protagonista. La finzione e la verità smarriscono i confini, laddove hanno la stessa sostanza emotiva, spirituale, ad animarle. Le carte di identità dei personaggi e degli interpreti hanno poca importanza, nel momento in cui si compie il rito teatrale che ha il suo fondamento proprio sullo slittamento eteronimico. Billy, il protagonista della storia, ispirata a un fatto realmente accaduto, è una sorta di Calibano post-moderno, LGBT, politicamente scorretto, angelo caduto nella terra, che agita ali fatte di laringe, provando a scrollarsi di dosso tutta la terra che le comprime.
Scarrella tra una personalità e l’altra come tra i telefilm degli anni ’70, dai colori decisamente elettrici, che scorrono sullo schermo di un occhio ciclopico multimediale: un televisore le cui immagini frammentate, sincopate, sono lo specchio della psicopatologia del protagonista. La sua colpa sembra andare in un territorio decisamente metafisico e ineffabile, nel solco della tradizione della buona tragedia classica. La carne, invece, deve continuamente espiare: presenza insistita, necessaria, sul palcoscenico, l’unica certezza unitaria di un’identità spaccata, frammentata. Ha torturato, stuprato, anche se a compiere l’atto, a coltivare il terreno giusto perché avvenisse, sono state altre “dramatis personae”. L’io è sempre, rimbaudianamente, un altro, e l’inconscio è una multiproprietà fin troppo affollata. Anche le due donne che si alternano nell’interpretazioni dei vari personaggi gravitanti intorno a Billy, le vittime, la madre, l’avvocato, la psicologa, sono continuamente in predicato – perché così prevede lo statuto della scrittura scenica – di cambiare identità.
Dalla parte della platea, si ha l’impressione di avere tra le mani una sorta di telecomando psichico, in grado di permettere il veloce cambio di programma tra un ego e l’altro. La riflessione che può, facilmente, incarnare il palcoscenico, è il fatto che l’essere qualcuno non sia un dato aprioristico, un assioma da cui dedurre se stessi, ma, piuttosto, un continuo lavoro di costruzione e ricerca. Questo spettacolo è, decisamente, una “veneranda fabbrica del duomo” della personalità. La grammatica con cui sono costruite le scene che, via via, scorrono una dopo l’altra, annunciate (attraverso un teatro, insieme, multimediale ed epico) da didascalie, riecheggia quella della televisione: al montaggio, spesso già veloce ed ossessivo, dei programmi, si sovrappone quello ulteriore, provocato dall’ansia frenetica del cambio di canale, attraverso il telecomando. Ci viene proposta, dunque, una crime story, che esce dalla comfort zone della serialità televisiva, per diventare – attraverso l’atanor, il fornello alchemico, del teatro – pietra di carne rovente che brucia piacevolmente sulla pelle della platea tutta. Fausto Cabra costruisce, con la drammaturgia di Gianni Forte, una caverna di Platone, dove si proietta multimedialità per lo schiavo sull’orlo di una crisi di nervi e di personalità. Raffaele Esposito si strappa di dosso lembi di carne dell’anima, come farebbe un animale con la zampa bloccata in una trappola, per rendere, meravigliosamente, l’altro, o, meglio, gli altri che lo abitano. E, se si tratta di un’orchestra di pessoana memoria, riproduce musica del pieno Novecento, decisamente atonale, dodecafonica, volutamente e piacevolmente disturbante. Anna Gualdo ed Elena Gigliotti passano con fregolistica agilità, psichica ed emotiva, da un personaggio all’altro; ed hanno la capacità di mettersi, ogni volta, un vestito che cambi, idealmente, non solo l’aspetto , ma anche la carne e l’anima. Tutto è costruito per mostrare, in un ideale ralenti, l’atto stesso di frammentazione dell’io, della personalità. Pirandello ha felicemente smarrito il suo raisonneur, e lascia che i personaggi trovino il loro autore nell’inconscio.
Danilo Caravà
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