La vita accanto…e dentro

vita accanto

Il dramma di una ragazza fisicamente “brutta, ma proprio brutta”. Il dramma di un’anima sensibile traboccante di bellezza. Il dolore dell’affetto negato, della solitudine forzata, della vita che ti scivola accanto.

La vita accanto, con la regia di Cristina Pezzoli e interpretato da Monica Menchi, è uno spettacolo toccante e intenso che riesce, paradossalmente con delicatezza, a darti un pugno nello stomaco.

Tratta dall’omonimo romanzo di Maria Pia Veladiano (vincitore del Premio “Calvino” 2010, pubblicato da Einaudi e classificatosi al secondo posto al Premio “Strega” 2011) e riadattata per il teatro da Maura Del Serra (poetessa, drammaturga, traduttrice e critico letterario, comparatista nell’Università di Firenze), la storia ha per protagonista Rebecca, una dolce bambina nata presso una famiglia benestante, respinta dai suoi stessi genitori a causa del suo orrendo aspetto fisico. Derisa dai suoi coetanei e coccolata soltanto dall’ambigua zia Erminia e dalla tata Maddalena, trova il suo riscatto personale nelle sue bellissime mani e nel suo eccezionale talento per il pianoforte. Grazie all’anziana signora De Lellis, Rebecca non solo imparerà a diventare una grande pianista ma scoprirà quali tremende verità si celano nella sua famiglia, riscoprendo sotto una nuova luce la figura della madre e liberandosi dalle angosce e dalle paure che l’avevano oppressa per tanto tempo nella sua prigione dorata.

Ad interpretare questa fragile creatura e allo stesso tempo anche gli altri personaggi che danno vita alla vicenda, è la bravissima Monica Menchi, insignita per questa performance del Grand Prix del Teatro 2015. Estremamente abile nel descrivere i diversi personaggi, con leggerezza ma precisione mette in mostra l’ipocrisia e l’intolleranza che agiscono nella famiglia e nella società “bene” dove cresce la bambina, vittima innocente della violenza e della stupidità altrui. Guidata dalla regista Cristina Pezzoli, Monica Menchi alterna scene di profonda disperazione a slanci di gioia e di speranza, trascinando con sé il pubblico in un vortice di forti emozioni. La scena sobria dà spazio ai volteggi dell’attrice, che simile ad una farfalla agita le lunghe maniche del vestito bianco come fossero delle grandi ali per poi tornare ad essere catene, lacci, nastri. Le foglie sparse sul pavimento e i pochi oggetti in scena sottolineano la solitudine e la malinconia di un’esistenza dove la luce tanto desiderata rischia spesso di essere soffocata dalle ombre, dai veli che mascherano la realtà e che restituiscono una visione distorta anche di se stessi. La resa scenica risulterebbe ancor più potente se anche le proiezioni e i brani musicali fossero scelti e curati con maggiore attenzione, conferendo ulteriore spessore a uno spettacolo in cui le percezioni dei sensi, in particolare quelle visive e uditive, sono essenziali in rapporto alle considerazioni sulla propria immagine.

Cristina Pezzoli è ben consapevole della complessità dell’argomento affrontato: “Mettere in scena la bruttezza come metafora, conservarne il mistero, non banalizzare rendendo realisticamente “mostruosa” la protagonista, è un compito non piccolo.” Aggiunge inoltre: “Questa storia sfida il tempo in cui è stata scritta: un’epoca in cui l’apparire ha seppellito l’essere, in cui “photoshoppare” visi e corpi è le regola che si impone per correggere e falsificare ogni minima imperfezione del corpo umano (…) È l’atto scandaloso di una bellezza che ha bisogno di orecchie e di anima per essere vista più che di occhi”.

Questo spettacolo sembra perciò spronarci ad avere la forza ed il coraggio di adottare uno sguardo più profondo, che non scivoli sulla superficie di chi ci passa accanto, ma che sveli l’immensità dell’anima e sia disponibile ad accogliere la “vita dentro” ciascuno di noi.

Beatrice Marzorati

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