
Antonella Attili e Alessio Boni rinnovano il mito con un’opera contemporanea, intelligente, spietatamente sarcastica sul potere
Cari Amici di ProfAmà, oggi vorrei poterVi restituire un po’ delle mie emozioni e riflessioni su “Iliade: il gioco degli dèi”, splendida riscrittura professionistica della celeberrima Iliade di Omero. L’adattamento in scena al milanesissimo Manzoni riassume un concetto chiave che nasce dal più famoso conflitto di sempre. Pur risalendo all’VIII secolo a.C e con una durata che seppur lunga, copre un lasso di tempo di soli dieci anni, è stata capace di valicare e toccare ogni secolo, grazie a un mito mai sopito, con i protagonisti leggendari, IL cavallo, il viaggio periglioso di Odisseo che ne consegue. Ebbene, qual è la chiave di lettura universale? Il protagonista della Alessio Boni, spiega in maniera esaustiva:
La guerra è dentro ognuno di noi, che la viviamo ogni giorno
Magari è questa presenza costante a renderlo sempre attuale…
Buona lettura!
Veronica
“ILIADE: il gioco degli dèi”
Nello storico teatro Milanese, “ll Manzoni”, torna il fascino dell’epica. “ILIADE: il gioco degli dèi” con protagonisti Alessio Boni e Antonella Attili è scena dal 25 Marzo fino al 6 Aprile.
Si tratta di una riscrittura liberamente ispirata al poema Omerico da parte di Francesco Niccolini, con la regia di Roberto Aldorasi, Alessio Boni e Marcello Prayer. Tutti loro, insieme all’autore, sono parte di un fortunato e capace quadrivio artistico, che insieme a un cast di altissimo livello riporta la “guerra di tutte le guerre” prepotentemente in primo piano.
La scena si apre su una spiaggia anonima, che attraverso le parole dei protagonisti scopriamo essere a Troia.
Zeus, interpretato da Boni e la moglie Hera, interpretata da Antonella Attili, attendono l’arrivo dei figli del padre degli dèi, da lui stesso convocati.
Era, per nulla felice di vedere i figliastri, riprova dell’infedeltà di Zeus, è costretta ad accoglierli per un’insolita riunione di famiglia.
Zeus tende ormai a dimenticare molte cose, appare come lo spettro svilito di sé, non ha più quell’aria imponente da dio.
Lo stesso vale per gli altri protagonisti che giungono in scena via via. Prima Atena, avvolta in una giacca di pelle, simbolo della sfrontatezza della gioventù, con un Hermes fashion icon, poi Afrodite, più affascinante che mai nei suoi sgargianti abiti orientali, Apollo, e un goffo nonché debole Ares, unici figli della coppia. Tutti loro, dunque, indossano capi di abbigliamento dei nostri giorni, come a rappresentare l’attualizzazione degli dèi in un tempo in cui sono eternamente presenti.
Zeus, che con i suoi momentanei vuoti di memoria fatica a ricordare il vero motivo per cui li ha voluti lì, tutti presenti, cerca di concentrarsi per comprendere come sia stato possibile che gli uomini li abbiano in qualche modo dimenticati.
Su di loro, infatti, le divinità sembrano non aver più alcun potere. 30000 anni di storia mitica, eppure la loro influenza è sempre più pallida, come appare anche la loro immagine, ora senza più alcun lustro.
Sono tutti il riflesso di ciò che furono, al punto che Zeus non riuscirà, verso la fine dell’opera, nemmeno più a scagliare i suoi famosi fulmini e tuoni con cui sottomette l’indisponenza di figli e moglie annoiati. Nondimeno, sembrano essere caduti dall’Olimpo (o è l’Olimpo ad essersi spiaggiato? -n.d.r-) e non sanno spiegarne i motivi.
Zeus, di fronte a un braciere con simbolico fuoco affievolito, trova il modo di rievocare i tempi più lieti e combattere la noia. Rivivranno la “madre di tutte le guerre”, quella di Troia narrata nell’Iliade, che li vide indirettamente protagonisti attraverso i loro protetti umani.
La narrazione si concentra, senza una rigida linea temporale, sugli ultimi cinquanta giorni dei dieci interminabili anni di guerra.

Il gioco degli dèi
L’Iliade è pertanto un gioco, come accenna il titolo dello spettacolo, di rievocazione in cui gli dèi prendono le maestose armature dei loro protagonisti umani, si celano dietro di esse, le portano in alto. Nel farlo, rivelano così la loro spietatezza nel primo vero gioco, quando gli uomini non erano altro che meri esecutori dilaniati, fisicamente e psicologicamente, dai loro capricci.
In eco, l’incipit del poema: «Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta», con l’arrivo sulla scena del famoso semidio guerriero, destinato a perdere la vita a Troia, inseguendo la gloria che lo consacrerà nei tempi.
Achille, superbamente interpretato da Boni, a sua volta nei panni di Zeus, si troverà a struggersi per essere stato costretto a rinunciare all’amata Briseide. Per questo torto di Agamennone, re degli Atridi, egli è fermo nel non muovere armi senza le sue scuse. Achille si trova più volte con la saggia e bellissima madre Teti, amata da Zeus, che cerca di farlo desistere dalla battaglia che lo porterà a morte certa.
Raggiunto dal giovane Patroclo, gli concede di usare le sue armi solo per rinvigorire i Mirmidoni, suoi uomini, per far ripiegare i troiani che hanno ormai incendiato le navi greche. Egli è convinto che grazie alla supplica di Teti a Zeus, si salveranno. Il patto per Achille, eroe favorito di Atena, in costante conflitto con Ares (rappresentano la ragione contro la guerra) per tale concessione è, quindi, di non usarle per combattere.
Fra una vestizione dei panni umani e i loro dialoghi divini, il dio del fulmine, designato quale giudice imparziale, intima che non ci siano interferenze nelle azioni umane.
Gli dèi riprendono le loro parti, depositando i loro enormi manichini armati, per discutere, spesso litigare fra loro, rivelando ora minacce, ora ridicolaggini, o punzecchiature.
I battibecchi coniugali fra Hera e Zeus sono spassosi. Al divin fedifrago, ricordano i molteplici e bizzarri modi di trasformarsi in animali e/o elementi naturali per possedere le sue prede femminili. Metodi evidentemente ormai arcaici, come la dominanza stessa del soprannaturale.
(O, dell’innaturale, dell’uomo potente che commette abuso su giovani donne… -n.d.r.-)
Antonella Attili è bravissima: si prende palco e pubblico nel ruolo di furba matriarca, abituatasi alle scappatelle del marito.
Fra piani divini e umani: vestendo e svestendo i personaggi, gli dei rivisita(t)tori
Il continuo scambio dei due momenti, divino e divino/umano incalza e tiene incollati gli spettatori.
I passaggi da dèi-immortali a “dèi- rivisita(t)tori” è molto ben bilanciato grazie alla capacità degli interpreti ottimamente amalgamati e dell’attenta e minuziosa regia. Ad ogni narrazione si assiste allo svelamento del dio “responsabilizzato” da noi spettatori, umani.
Tanto in versione di prorompenti eroi quanto di sconquassati dèi, la presenza scenica degli attori si ingigantisce e si ridimensiona, in contrasto con il piano “ordinario” degli esseri sovrumani, quello più alto, quello cioè del classico deus-ex-machina, a cui la scenografia strizza l’occhio con due piattaforme mobili, una appannaggio dei soli dèi, dove parlare delle loro faccende da eterni tediati, dalla quale essi (tramite uno scalone) scendono sul piano umano, che è invece quello bellico e dei sotterfugi ammaliatori,
Così, prontamente, si torna sul piano divino: Ares è spalleggiato dalla madre Hera, la vera pianificatrice, in forza a un insolito scambio di poteri e inverosimili alleanze con Afrodite. Il dio epilettico della guerra ha un comportamento ridicolo e infantile. Nel banale screzio fra fratellastri, fa in modo che non appena sul campo, Patroclo dimentichi la promessa fatta ad Achille. Le sue armi spargono terrore e sangue troiano, e l’episodio culmina con la morte di Sarpedonte, uno dei figli semidivini di Zeus. Benché giudice, egli è preda del suo stesso gioco.
È il primo momento in cui Zeus mostra un dolore accecante, tanto che Atena, insieme ad Afrodite e ad Era, gli rinfacciano di mostrare un sentimento per gli “umano”. Egli svela compassione come “padre” per quei figli che ha creato a sua immagine e somiglianza, destinati a vivere un solo giorno, rispetto alla loro immortalità.
Anche la morte di Patroclo non è che un’altra macchinazione dovuta alla volontà di non far più partire il Pelìde, cambiando il finale stesso della guerra.
Nel fatale incontro di Patroclo con Ettore, il principe di Troia e figlio di re Priamo, lotta per salvare la sua città dall’assedio delle truppe greche per riavere la bella Elena, sottratta a Menelao dal fratello Paride.
Ettore, inconsapevole dell’aiuto di Apollo, credendo di trovarsi di fronte ad Achille, lo uccide e se ne beffa.
Il principe simboleggia il padre di famiglia e della sua gente; in un momento di profonda commozione, dà l’addio ad Andromaca, sua supplice sposa, rifiutandosi di salvarsi, sapendo di altri mariti e padri troiani periti battaglia senza di lui, loro sovrano ed eroe. Elena lo raggiunge, e gli rivela di come in verità detesti Paride, ma che contrastare l’impulso a seguirlo le fu impossibile.
Durante il frammento della rievocazione del celebre pomo della discordia, alla base del conflitto in orifine, emerge la figura di una Elena vittima rea suo malgrado. II dono della bellezza è per lei una maledizione, per il quale sa di essere divenuta tanto invisa agli uomini giacché causa del conflitto alla base dell’Iliade.
Afrodite svela la promessa a Paride di offrigli in sposa la più bella delle donne qualora l’avesse incoronata come dea della bellezza, consegnandole la mela contesa.
Sicché, alla base delle sventure della giovane umana, sottratta al matrimonio felice con Menelao, c’è un artificio legato alla faida divina fra Atena, Afrodite e Hera. Elena rappresenta tanto il desiderio quanto l’incapacità di accettare che non tutto possa essere posseduto, salvo con sotterfugi o forza.
Paride, eroe impersonato da Ares, dalla sua si mostra un piccolo uomo, che non combatte e resta al sicuro nel castello con la donna preda delle sue pulsioni. Il fratello lo implora di scendere in campo, ma si nega: col suo arco prima o poi avrà il suo momento.
L’episodio più celebre dell’Iliade, anche in quella rievocata dagli dèi, è senza dubbio quello della furia di Achille dopo l’omicidio di Patroclo. Dolore, cieca rabbia e senso di colpa per l’amico lo spingono verso le mura di Troia alla spasmodica ricerca di vendetta. In un’atmosfera cupa, l’eroe urla contro il nemico Ettore affinché esca a combattere. Lui, che ha tolto la vita all’amico pensando di aver sconfitto il più forte dei greci. Vinte le reticenze, Ettore giunge dalla platea, definendosi un semplice uomo, un “domatore di cavalli”, che si batte per Troia. La sua non è brama di vittoria per la gloria, come quella del formidabile e indomito ellenico. Sa di essergli nettamente inferiore, ma Ettore lo affronta con dignità e coraggio, richiamando o, meglio, anticipando il concetto di titanismo leopardiano.
Nella sua collera, Achille lo colpisce fatalmente. Ormai moribondo, il vinto lo supplica di riportare il suo corpo alla famiglia. Il greco, a sua volta certo di essere prossimo a perire per volontà del Fato, crudelmente gli garantisce che non avrà pietà di lui nemmeno senza vita, privandolo di una degna sepoltura. Il figlio di Teti non mostra alcun rispetto per i morti, tema tanto caro ai greci. La narrazione si sposta alla notte seguente il truce e dissacrante gesto di Achille al corpo di Ettore, trascinato come macabro trofeo intorno alle mura della città ormai senza campione. Apollo, stavolta nei panni di Re Priamo, riporta con grande emotività la sua accorata richiesta di restituzione del cadavere. Il vecchio re fa leva sul padre di Achille e sul dolore che proverà nel non vederlo fare ritorno, almeno da morto.
Il gesto del fragile anziano sovrano, guidato dal dio fra le truppe achee per non essere scoperto, di prostrarsi ai piedi del giovane e implacabile semidio nemico è il momento della redenzione di Achille. Dall’alto della sua grande armatura, l’eroe si commuove (e commuove il pubblico in sala); garantisce a Priamo dieci giorni di tregua affinché onori il figlio.
«Dolorosa ci assale l’immortalità»: la saggezza di Teti, nel silenzio dei tanti in una Troia desolata
Un senso di vuoto anima anche gli dèi, spogliati di armature, armi e anche di loro stessi, della loro onnipotenza.
La fiamma del braciere a cui gli immortali sono riuniti, in un’arena più metafisica che trascendente, li porta a chiedersi dunque quale sia il punto in cui gli dèi cessano di essere:
Chi fu la causa della strage, dunque? Uomini o dèi? Che differenza c’è? Gli umani sono stati creati a immagine e somiglianza degli dei, o forse è il contrario?
Un gran silenzio infine consuma gli dèi dopo le loro ultime constatazioni. La più amara, la più intensa, è quella di Teti.
Grande è il silenzio che infine li consuma: la fiamma del braciere non divampa. Intorno a loro, un’arena più metafisica che campo di battaglie immanenti. Una landa desolata come quella di T.S.Eliot, nello spirito e nell’essenza davanti alla quale gli dèi riunitisi, di nuovo nelle loro parti di potenti, li porta più vicini alla chiave dei loro tormenti: la responsabilità.
Un topos a loro sconosciuto, fino ad oggi, o almeno fino alla nostra idea di Iliade. Se è vero che ai tempi narrati nell’Iliade omerica c’era un estraniamento da ogni scrupolo, in cui la responsabilità era esclusiva del Fato, ora è altresì vero che ci sono colpe, rapporti diretti e indiretti fra azioni e danni causati ed effetti correlati come conseguenze. Dalle quali, né gli immortali che, giocando a fare gli eroi mortali sono finiti nel disincantato mondo contemporaneo del mito morto, non più epico, né noi -che mortali lo siamo realmente- possiamo più soltanto guardare, popolo di una Terra ideale, lacerata e depredata, esularci. Apparentemente, la scacchiera delle pedine umane ha reso pedine anche loro che manovrano il potere, tiranneggiandolo, in pochi, sulle azioni dell’umanità che si cela dietro la sedicente o arrogatasi nuova divinità.
Non casuale è la scelta di far apparire Ares come un frignone, nondimeno figlio della coppia che governa l’Olimpo o ciò che ne resta. Il dio della guerra è infantile e ridicolo, in netta contrapposizione con l’idea comune di aitante e affascinante guerriero.
Conscia dell’epoca di Omero, antecedente l’aeropago, potremmo oggi ipotizzare che anche i capricci e gli sgarbi di Atena, dea di intelligenza e ragione, ai nostri occhi risultino comunque non equi. Una giustizia impudente, vendicativa, che non tiene conto degli uomini è un lato che valica i confini contrari.

Cast
Il cast è ricco di elementi eccellenti e versatili, tutti credibili nelle loro parti molteplici: oltre ai protagonisti Boni e Attili, Marcello Prayer è un magnifico Ettore; Francesco Meoni dà vita a un capriccioso frignone con crisi epilettiche adorato e protetto dalla madre Hera. Bellissima l’interpretazione di Haroun Fall come Hermes/Patroclo, e la grazia di Jun Ichiwaka mostra come un semplice ventaglio quale oggetto di scena possa rivelarsi seducente. Liliana Massari, ninfa sposa di un mortale e madre di Achille, ci mostra con elegante sobrietà, negli abiti come nelle espressioni, l’amore di una madre che vorrebbe il figlio lontano, senza (vana? -n.d.r.-) gloria, ma in salvo. Elena Nico rappresenta l’eterna giovinezza e la condanna dietro all’eterna giovinezza, e alla bellezza, come Atena e come Elena.
I pupi
L’Iliade del Quadrivio è uno spettacolo anche per gli occhi, un’opera potentissima, resa visivamente con una studiata essenzialità estrema di scenografia, contrapposta alle marionette con le armature imponenti, enormi come gli immortali eroi che rappresentano.
Esse si muovono come fossero tutt’uno con gli attori, che pur riescono a dar loro dinamismo, plasticità, vita.
Un omaggio alla tradizione dei Pupi siciliani, marionette nelle mani di un burattinaio almeno 10 volte più grande di loro.
«Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo »
Se fossimo idealmente ignari della paternità di questa celebre citazione tratta da “Il Berretto a Sonagli” di Pirandello, comprenderemmo quanto questo rimando funzioni più che mai anche per Iliade:il gioco degli dèi, che sono i veri artefici delle azioni umane, mentre gli uomini non possono fare altro che vivere profondamente le emozioni.
Struggendosi, rallegrandosi, arrabbiandosi, gli uomini hanno tuttavia un lato più profondo rispetto agli esseri divini, ed è forse questo che vuole evidenziare l’opera, poiché la consapevolezza di caducità dell’esistenza, conferisce loro la capacità di viverne ogni singolo istante.
Alberto Favretto, Marta Montevecchi e Raquel Silva, hanno magistralmente realizzato le marionette-pupi che catturano lo sguardo di tutti gli spettatori.
Una grande e ingegnosa operazione di meta-teatralità
Come già anticipato, i livelli di narrazione, che procede in blocchi paralleli, sono due, divino e umano, che si differenziano per il registro verbale di genere comico per il primo, e tragico per quello umano.
Questa dicotomia si riflette tutta l’opera che trova forse nell’alternanza dei due universi, umano e immortale, portati in scena.
Il sole rosso delle luci che emerge dal buio e torna, vigile, sembra l’occhio del grande fratello (non quello della tv, per intenderci, -n.d.r.-), che ci osserva, fintamente impassibile, ci scruta, ci giudica e ci minaccia affinché prendiamo noi stessi coscienza della follia della guerra.
Voluta da pochi,
estranea a tanti, fendente più della lama che trafigge l’unico punto scoperto,
condanna per tutti
Il risultato è un suggestivo insieme di luci, disegnate da Davide Scognamiglio, che dettano il ritmo di scene, scenografia di Massimo Troncaretti e con le musiche. Inedite di Francesco Forni, che sollecitano le danze nella famiglia infelice in alcuni momenti più ironici.
Diversi sono anche i costumi degli attori (realizzati da Francesco Esposito).
Impersonando gli dèi, gli attori indossano capi comuni del nostro tempo, come anche il completo verde aqua di Zeus/Boni, mentre, quando sono gli dèi a rappresentare parte del racconto troiano, si nascondono dietro alle svettanti armature dei loro eroi.
Tutto porta sul palco una grande e ingegnosa operazione di meta-teatralità, dove mascherarsi altro non è che un propalare un ruolo specifico alla base delle loro azioni.
Ne deriva che il loro demitizzato potere diventi specchio deformato delle pulsioni più ancestrali dell’uomo.
La morte di Sarpedonte per Zeus, ad esempio, rappresenta l’ipocrisia con la quale si tende a non fare nulla, a essere super partes, fino a quando le tragedie, ci toccano più da vicino.
L’estetica dei Millenial: dal pop al pulp
Chi scrive rientra appieno nella generazione cresciuta con i simpatici racconti del cartone animato “Pollon”, dove Zeus era un “burbero farfallone” alle prese con una gelosissima moglie, un figlio che puntualmente umilia, Apollo, e l’ indisciplinata nipotina che vuole diventare una dea, grazie all’aiuto del goffo e alato Eros nudo. Poi c’è stato l’Hercules targato Disney, dove il dio, per certi versi, rivela già una natura velatamente ambigua, negando l’accesso all’Olimpo al figlio bullizzato. Pur spronandolo a diventare un eroe, si rattrista per la scelta di lui di rimanere tra chi lo aveva accolto quale straordinario, semplice mortale. (Questo naturalmente riconoscendo ad Hades il fascino del bad-boy! -n.d.r.-). Sono pure cresciuta nella rievocazione dell’epica con l “Odissea” di Armand-Assante-Greta-Scacchi-Isabella Rossellini,tutt’uno con lo spot. Nondimeno, ho vissuto con l’epica proiettata sul versante fantasy di Hercules-Capellone Kevin-Sorbo che combatte almeno 120 fatiche con il fidato Iolao, e la stratosferica Xena, fra l’amore e l’odio per l’affascinante Ares. Si è anche aggiunta qualche puntata de “Young Hercules”, che di young aveva anche un certo Ryan Gosling… E poi, naturalmente, “Troy” ha fatto la sua parte… Chi non ricorda il grido di Achille/Brad: “Ettoreee”? Io lo sento nelle orecchie anche ora che ne scrivo.
Un curioso immaginario collettivo di miti, eroi mitici e dèi, molti dei quali stizzosi e crudeli, però fermi nel loro tempo lontanissimo. Molto pop, sicuramente caricature grunge, e indubbiamente pulp nelle sorprendenti evoluzioni delle trame.
Ma queste, forse volontariamente, non si sono spinte a una rilettura come quella de “Iliade: il gioco degli dèi”, o forse onde evitare di intaccare il mito, al di là delle riletture delle talvolta discutibili sceneggiature, relegandolo solo alla fantasia e non nella vera essenza dell’epica.
Leggendo l’Iliade Omerica, così come l’Odissea e la maggior parte delle opere della tradizione greca, è impossibile non trovare con la rappresentazione del Quadrivio un senso di immediatezza, rinvigorito ricordo di ciò che ci è stato insegnato fin da bambini.
Umani maledettamente umani o umani, maledettamente divini?
L’uomo sceso dall’Olimpo è una pedina che rientra nel gioco, senza mai tesserne le file.
“Iliade: il gioco degli dèi” mantiene il pathos del testo antico e lo attualizza col registro dell’ironia. In questo modo, tocca e resta nell’occhio di chi assiste, spingendolo a riflettere come solo il mito è capace di fare. Ci ritroviamo in più sublivelli di coscienza concentrati sulla natura folle delle guerre (di cui scrissi già anni fa -n.d.r.-) e di pochi eletti che comandano le sorti di tutti.
Tematica attualissima, necessaria, in un momento storico così delicato quanto quello che viviamo. Il mito, ancora una volta, assume la sua massima autorità originale di racconto e trasposizione della società, oltre e nel tempo. Questa volta, tuttavia, non vi è catarsi a liberarci dalla pietà e terroreche proviamo. Ci spronano a indossare i panni di ogni giorno, di noi stessi, e ad essere più attenti a ciò che drammaticamente ci circonda.
Una guerra che appartiene, citando nuovamente Boni, a ognuno di noi, intrinseca. Ma paradossalmente non appartiene ad alcuno, poiché nessuno di noi “comuni mortali” vorrebbe altre guerre.
Oltre elmi o elmetti, oltre le armi
In questa metafora dell’esistenza umana, nel gioco dei potenti, non vi è liberazione per chi, più o meno stabilmente, governa con forza e meschinità, perpetrando e continuando a perpetrare nefandezze.
Il pubblico prova profonda empatia con gli eroi, piangendo Patroclo, simpatizzando per Ettore, cercando di far rinsavire Achille, subendo il fascino tentatore di Afrodite e commuovendosi per il vecchio re che si prostra a schiavo supplice, Priamo
Quella di Boni è effettivamente un’Iliade che commuove, diverte, incanta un pubblico adulto, pur mostrandosi adatta ai ragazzi e ai piccoli nelle scuole, come metafora dell’esistenza di un’umanità che si erge a divinità, senza essere mai del tutto padrona del proprio destino.
In definitiva, siamo tutti vittime del potere di pochi, che ci usano come burattini privandoci delle nostre libertà di singoli, ed è necessaria una lunga riflessione.
Ripensando, infine, a noi che, da bambini, avremmo smascherato meglio l’ambiguo gioco delle maschere e dei pupi, chissà che proprio quel Fato non abbia voluto che a “liberare” Alessio da Zeus fossero, in un tenerissimo scambio a sorpresa da attore a uomo, le sue due splendide bambine, giunte a salutare il loro papà sul palco.
L’opera corale di ha debuttato al Teatro Donizetti, dal quale è co-prodotto, in occasione di Bergamo&Brescia Capitali della Cultura 2023.
Le serate al Manzoni del 30 Marzo e del 6 Aprile saranno a sfondo benefico grazie alla Fondazione Banco Energia di A2A, che doneranno il ricavato per aiutare famiglie in difficoltà, contrastando la povertà energetica.
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