
Ferdinando Bruni e Francesco Frongia hanno una invidiabile capacità penetrativa, esegetica, nei confronti dell’opera di Peter Shaffer. Sono illuminati da una potente intuizione: questo testo teatrale si candida ad essere una moderna tragedia. Di nuovo l’uomo edipico, disperatamente alla ricerca di un buñueliano fantasma della libertà, cerca di scrollarsi di dosso la cavezza teologica, il controllo delle redini metafisiche del divino, senza riuscirci. Quanto odore di Dio c’è nelle parole di Salieri; il trascendente si mostra come un fiato chetonico, una digestione esistenziale incompiuta che ha una sua immediata percepibilità. Si apre un gioco di scacchi tra causalità e casualità, tra destino e libera determinazione. In questa partita senza esclusione di colpi, Mozart è un segno: ha una funzione mercuriale, messaggero di una beffarda risata divina, dove l’assurdo ha una carattere tragicomico, come nel più moderno e caustico teatro beckettiano e ioneschiano. Dio gioca a dadi, e di gusto, divertendosi a sparigliare le carte e truccare i dadi a suo comodo e a suo piacere. La scintilla dell’assoluto non scorre nel sicuro alveo dell’austerità, della severità di Salieri, ma si esprime nella giocosa “joie de vivre” coprolalica del buon Mozart.
L’invidia del musicista italiano ha una “nobile” origine nell’etimo stesso della parola, ossia “in video”: guardare contro, certo, ma anche dentro. E Salieri è in grado di osservare l’invisibile, di fare una tomografia assiale all’anima di Amadeus, vedendo quell’animula vagula blandula, su cui hanno soffiato i generosi polmoni del divino. Se deus ex machina c’è, in questa vicenda teatrale, è proprio l’antagonista, l’invidioso, il protégé dell’imperatore che, sulla sua sedia a rotelle da Dottor Stranamore ante litteram, sgancia le sue bombe atomiche teologiche, e si alza, nel meraviglioso gioco temporale, per calarsi in soggettiva nel ricordo. Gli altri appaiono e si presentano in scena come elementi di un carillon musicale, automi, rock ‘n’ roll robots alla Camerini: meccanismi ad orologeria, che girano intorno ai protagonisti con deterministica precisione. Sul fondo, un settecentesco Platone proietta le sue lanterne magiche e, soprattutto, le sue ombre metateatrali, apparizioni di un mondo apparente, in cui la luce del vero si intuisce per negazione, laddove l’ombra smette la sua oscurità.
Mentre la musica mozartiana diventa un vero e proprio stimolante somatico; serotonergica, adrenalinica, scuote come un vento furioso la scena, vivendo a un’intensità che persino il ribelle Ama-deus non riesce a raggiungere. Ecco un altro merito di questo lavoro: mostrare la lotta impari tra il mortale genio e la sua genialità, materiale altamente infiammabile da maneggiare con cura. Gli antichi lo insegnano: chi è scosso dalla parola dell’assoluto sconta un disagio, un male incurabile esistenziale, che lo devasta irreparabilmente. Muore Flaubert , ma quella “putain” della Bovary continuerà a vivere; muore Mozart, ma la sua musica vive in tutta la sua eternità, senza l’equivoca presenza del suo compositore. E continua a vivere Salieri, che si inventa una geniale teologia ribelle della “mediocritas”. Ferdinando Bruni è un Salieri in stato di grazia, in grado di permettere che le tensioni e le contraddizioni del suo personaggio abitino la sua laringe e il suo corpo. Sornione, “lentus in umbra”, complottatore dietro le quinte, osservatore scientifico di un esperimento che gli sfugge dalle mani, rende ancora più preziose le sue esplosioni, più lacerante il suo grido metafisico che risuona attraverso i secoli.
Daniele Fedeli dà al suo Mozart la naturalità e la freschezza di un’acqua di fonte. Vive attimo per attimo il suo personaggio, in una sorta di buddhica consapevolezza. E’ esattamente lì, in ogni preciso istante emotivo di “Wolfi”. Valeria Andreanò rende tutta l’antinomica, rispetto al suo nome, incostanza emotiva di Constanze Weber. Si trasforma in un prisma, per scomporre nell’iride policromatica l’unità apparente del personaggio. Riccardo Buffonini e Alessandro Lussiana sono attori/commentatori/venticelli della storia efficaci; soffiano uno zefiro da leggeri fools shakespeariani, catturati dal “bel esprit” di fine settecento. Matteo de Mojana e Luca Toracca esprimono, per contro, tutto l’inceronato e tragicomico “esprit de geometrie” della nobiltà di corte. Ginestra Paladina incarna una nobildonna – virago irresistibile, oltre ad essere la talentuosa cantante, allieva di Salieri, Katherina Cavalieri. Umberto Petranca interpreta un imperatore Giuseppe II marionettisticamente incipriato nel suo ruolo di potere. L’alpha e l’omega dello spettacolo sono rappresentati dal musicista italiano, che, nel finale, con una dinamicità mimica alla Lindsay Kemp, si infeta, si imbozzola, si ingemma. Tale postura sintetizza, in un simbolo potente, tutto lo spettacolo, giusto un istante prima che esploda il generoso capitale di applausi.
Danilo Caravà
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