L’intuizione di Bergonzoni trascende, letteralmente, la categoria della genialità. Il pensiero e, quindi, la nostra natura si dànno attraverso il linguaggio; per cui, plasmare quest’ultimo, alla maniera di un demiurgo del vocabolario, diventa la possibilità di estendere non solo la geografia del dicibile, ma, insieme a essa, il nostro umano esprimerci e consegnarci alla realtà. Memore della lezione di Wittgenstein, l’attore scardina i confini del linguaggio, e valica i confini del mondo. Nel suo multiverso grammaticale, nella sua alchimia sintattica, è in grado di restituire, con precisione matematica, non solo il concetto, ma il suo impatto percettivo, cognitivo, emozionale sullo spettatore.
L’inventio drammaturgica, a questo giro, prende spunto da una messa all’asta dei pensieri, e diventa il motore propulsivo, il big bang per far esplodere il linguaggio, e ricostruirlo con la dovizia di un mosaicista ravennate. L’operazione fonetica genera una sorta di Lucky beckettiano in versione 2.0. E’ un personaggio restituito alla sua piena dignità, al pari di Rosencrantz e Guilderstern di Stoppard, al di fuori della drammaturgia originaria; personaggio in grado di riversare il suo torrenziale eloquio come nuovo battesimo esegetico, come aspersione per una bene-dizione con effetti largamente catartici. Non c’è, in questo serissimo gioco di Bergonzoni, un’oncia di gratuità, o di spirito di art pour art; non c’è nessun balocco squisitamente estetico, bensì un’etica che passa necessariamente dalla parola, e in essa trova la sua prima dicibilità. Predicatore potente, Savonarola bruciante, e insieme giullaresco, aristofanesco, tiene la platea tutta tra le mani, anzi meglio, tra i suoi fonemi, che scorrono veloci come quei fazzoletti, legati uno all’altro, dei prestigiatori. Unico elemento scenico, iconico quanto il monolite di 2001, è una cassa su cui battere il tempo, il ritmo, da cui attingere lo spirito del verbo, l’inconscio. Esso, al pari di un motore immobile di aristotelica memoria, si candida ad essere la causa prima di una dinamicità che, fatalmente, dalla laringe si trasmette su tutto il corpo, trasformandolo in una lingua che batte sul palato e sui denti del boccascena. L’interprete è andato ben al di là dell’istigazione marinettiana all’omicidio della luce lunare: è giunto nel luogo dove le parole si parlano e si sparlano, nate dal ventre di una intelligente idealità, per schiaffeggiare, come un aforisma zen, i più paludati luoghi comuni.
Ecco che la lingua della drammaturgia diventa l’esasperanto (sic), e che si auspica l’esistenza di un cucito mnemonico in grado di “rammentare” (sic) le nostre impigrite e sfilacciate coscienze. La risata che si leva, generosa, dalla platea è imparentata con le latitudini della testa, con la decodifica razionale del calembour. E’, necessariamente, brechtiana, straniata, nata da un atto di consapevole scelta, di deliberata riflessione. Risulta impossibile memorizzare la legione di neologismi che sfilano sul palcoscenico, da parte di un sacerdote del verbo in preda ad una sorta di trance: un onomaturgo, che diventa anche taumaturgo. Molti termini hanno lo stesso sangue, la stessa storia araldica degli hapax legomenon di Dante.
Costituiscono un unicum linguistico, un’eccezione che invita la regola a darsi una bella regolata. In una realtà in cui, spesso, si mette il pilota automatico al linguaggio, e ci si lascia parlare dalle parole (concetto ben espresso già dai drammaturghi surrealisti), Bergonzoni è in grado di domarle e soggiogarle, e, con mani erculee, le strozza, le fa rinascere, ne de-creta l’esistenza attraverso una biblica genesi glottologica. E poi c’è quel sapore tutto emiliano, tutto bolognese, di tagliatelle al ragù, di ravioli e gnocchi fritti, che regala, a tanta gastronomia verbale, un prezioso valore aggiunto. Anche l’esplosione del grammelot, nei contro-finali dello spettacolo, arricchisce la sua interpretazione di ulteriori dimensioni verbali. Eccoci con la prova provata di una conquistata alta artigianalità della parola, al pari di quella che è chiamato ad avere l’orafo. Dopo lo spettacolo, rimane una persistenza retinica traslata all’udito: una traccia mnestica che invita ognuno a fare, nuovamente, della parola una questione vitale e centrale del proprio esistere, e di ogni possibile etica.
Danilo Caravà
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