Recensione: “Della madre”

della madre
foto Luigi Burroni

La madre sembra essere un principio creatore anche nella sua dimensione di significante linguistico, di primario suono del bambino, di vibrazione duplicata, vivificante, di mantra spontaneo, patrimonio irrinunciabile della religione dell’infanzia. E’ una parola, con alcune varianti, comune a lingue lontane, eppure così vicine, si presenta come primaria lallazione, grado zero fonetico, che permetterebbe di riscrivere l’incipit del vangelo di Giovanni, in principio era il verbo ed il verbo era presso la madre, presso il risuonare di quella parola.

Era dunque fatale che Perrotta, avvalendosi della preziosa consulenza drammaturgica del psicanalista lacaniano Massimo Recalcati, giungesse a questo secondo capitolo, il primo ha riguardato la figura del padre ed il terzo riguarderà quello del figlio, sul ruolo materno, elemento di una trilogia nata per indagare la complessa molecola famigliare. E fin da subito, dall’impatto visivo, lo spettatore ha la possibilità di avere un’immagine scenografica, sintetica, una sostanzializzazione dello spazio materno e delle sue dinamiche, ovvero due cupole, due enormi crinoline, due gonne settecentesche in grado di imporre la propria importante impalcatura al minuetto delle relazioni interpersonali, ma anche due seni asimmetrici, collegati da uno stretto legame, che si palleggiano kleinianamente il ruolo di seno buono e seno cattivo, e da cui sprizza latte fonetico con cui allattare l’appetito del pubblico.

Da questi elementi scenografici spuntano i corpi della madre e della madre della madre, geniale intuizione di un gioco di matrioske, dove i ruoli materni si guardano moltiplicati in un’ideale galleria degli specchi. Il femminile è qui un potenziale ventrale, uno spazio, una categoria a-priori di kantiana memoria con cui la donna fa esperienza del mondo, e dalla semisfera psichica in cui abita spuntano visioni amniotiche, braccine e manine infantili, di bambole-figlie da sempre patrimonio del serissimo gioco nietzschiano della maternità. Il linguaggio di questo duetto al femminile, intriso di una malia melodica, trascinante, al pari del duetto dei fiori della Lakmé, a tratti madrigalistico, porta notizia di quella tragicomica mitologia del quotidiano, che passa attraverso i tragicomici perigli omerici fatti di capricci, piccoli malanni, destinati a sciogliersi, a sbarcare sempre nell’Itaca materna, nell’isola accogliente dell’abbraccio femminile, il quale non finisce mai di interrogarsi su quanta possa stringere senza fare alcun male.

Perrotta interpreta il ruolo della nonna, e lo trova con semplicità, si cala nel femminile mettendosi a disposizione di questo archetipo, screziando la sua voce di toni insieme sottili e profondi, di una voce che viene da lontano, dalla galleria dei secoli, sembra quella di una Ecuba, orfana di una catartica tragedia, intenta a misurare la febbre ad Astianatte, cercando di rubare ad Andromaca il ruolo materno. Il suo essere madre di madre è una risonanza, che si esprime prima di tutto in forma vocale con la figlia, una struggente nostalgia di un ruolo che sembra ora depotenziato in quello di nonna. Gioca il fatale gioco del freudiano rocchetto di Hans con la figlia, fatto di un avanti-indietro, di un estenuante va-e-vieni, di un tira-e-molla espresso meravigliosamente nella corda, insieme sottile e robusta, dei suoi fonemi.

La figlia-madre, efficacemente interpretata dall’attrice Paola Roscioli, riesce nell’impresa di trasmutare alchemicamente la sua recitazione in un canto salmodico antifonale, si fa umile carezza la vibrazione della sua laringe, e fa nascere sorrisi la sua cura materna, a volte iperbolica, la sua messa in scena meta-teatrale della maternità attraverso la chat di what’s up, in cui un coro di voci trova il proprio comico corifeo nella mamma-amministratrice del gruppo. A questa Elettra più che il lutto si addice il pre-maman, mentre Clitennestra vaticinerà sul ruolo di madre. Si trovano, in questo testo scenico reminiscenze beckettiane, giorni felici, forse un po’ nevrotici, di due esseri femminili con il corpo immerso in una cupola-crinolina, che investono con prodigalità il loro patrimonio di parole, dando a quel vento la coscienza di sé donata dal fonema, dalla parola. E’ un distillato esistenziale questa parola declinata al femminile, è come la vita di Maupassant, non in sé ne buona né cattiva, né tragica, né comica, è semplicemente se stessa, e mostra, senza la pretesa di voler dimostrare, parla e canta senza che lo debba suggerire una diva, una Musa epica.

La madre mette il mondo al mondo, le parole di esso, e si presenta come uno spazio, l’unico modo in cui il generico essere può individuarsi, farsi esistenza, da-sein, l’esser-ci di heideggeriana memoria. E tra il tocco pianistico d Chopin e la versione quasi lirica di “Non credere” di Mina vive questo spettacolo, in cui la madre a tratti vince sulla donna, e subito dopo il rovesciamento porta al risultato contrario, la donna vince sulla madre, ma sempre si esprime e fa mostra di sé quell’invincibile sentimento femminile, il suo mistero ventrale, la sua vis procreativa, il suo ineffabile piacere/dispiacere esistenziale che costò mitologicamente la vista a Tiresia, che ne svelò la primarietà.

Danilo Caravà

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