C’è un daimon, sì, proprio un daimon, a guidare questo spettacolo: si apparenta a quello evocato da Socrate come ispiratore della sua ricerca filosofica, o a quello, citato dallo psicologo Hillman, in grado di chiamarci al nostro destino. Gigi Gherzi fa avvertire alla platea tutta l’urgenza di offrirci l’ultima tappa umana di Edipo, Colono. La psicanalisi freudiana ha fissato il personaggio nell’impasse della sua colpa incolpevole, trasformando il destino nel personale inconscio, nella rimozione di una cecità che suona come uno scacco definitivo. Eppure, il vecchio Sofocle trova un alter ego perfetto nel vecchio cieco, topos intramontabile nel mito greco, in grado finalmente di sciogliere tutti i nodi esistenziali. Il regista-autore è presente nel testo scenico come un curioso Kantor; spezza con epica, brechtiana efficacia il continuum scenico per sottolineare, spiegare, irrorare della sua passionale dialettica questo meraviglioso testo. Insomma, trova un linguaggio altro, diverso, una strada per vivificare la tragedia sofoclea, evitando la trappola delle laringi bronzate, degli alti coturni e di una parola elevata, ma fatalmente lontana. La normalità di una messa in prova, di un lavoro di costruzione mostrato in tutta la sua anatomica verità, dona alla storia una sorta di ipoteca tattile, di percezione immediata.
Gherzi va ben al di là del patto narrativo tra platea e palcoscenico; prende, idealmente, per mano lo spettatore, e congiunge il suo palmo con quello degli interpreti, realizzando, più che un incontro, una sorta di sposalizio. In questo spettacolo si ha la rara possibilità di non intuire, bensì vedere e ascoltare il lavoro dell’attore, su stesso e sul personaggio, e, soprattutto, l’arte maieutica di un regista che aiuta, e rende manifesto, il parto dei ruoli interpretati. La scena è essenziale ed efficace: vestigia di una tragedia, che arriva, occamianamente, all’essenziale, ai costumi, alle maschere, ai simboli archetipici che la sintetizzano. Mentre, sullo sfondo, proiezioni creano un riuscito contrasto di vivido cromatismo, di uno psichedelismo con effetto adrenalinico, serotonergico, in grado di energizzare le battute. La musica, che attinge a piene mani al nu-jazz inglese, diventa una straniata ed efficace danza bacchica; trova un ritmo diverso, un tempo diverso, come solo sa fare il jazz, per raccontare questa storia. Unico è questo esperimento di messa in scena, dove ciò che succede accade realmente, non importa se sul palcoscenico o in platea. Tutto obbedisce a l meraviglioso imperativo etico della ricerca, dello scavo dei significati, del tentativo di toccare, letteralmente, il cuore della tragedia. Nel luogo sacro di Atene, in cui era nato lo stesso Sofocle, è possibile trovare l’autentica catarsi; quella nel finale dell’Edipo Re è solo temporanea, o, meglio ancora apparente, come una promessa da compiersi.
Ora Edipo sembra sublimarsi, nel suo fine vita, oltre la propria carne. Sembra completare il rito dell’accecamento, non solo con il non vedere, ma con il non essere visto. Proprio quando è cercato da tutti, da Creonte, dal figlio Polinice, come una sorta di paradossale porte- bonheur del Fato, ecco che trova finalmente la chiave del proprio esserci: non più eroe passivo, ma attivo personaggio che sceglie di fermarsi, di negarsi, per diventare qualcosa di più grande e imperituro. Sembra la metafora stessa del tragediografo, dell’artista che comincerà davvero ad essere quando non sarà più. Lo scacco matto, più che agli dèi, è dato a Freud. Stefano Braschi è l’attore ideale per incarnare Edipo: la sua ruggente dionisicità, ventralità, la sua capacità di rompere, spaccare i fonemi per farli esplodere in faccia allo spettatore, la sua voce incatramata di respiro grumoso, regalano al personaggio una terza, e anche una quarta, dimensione. Maria Laura Palmieri veste Antigone con una naturalezza rara; ha il passo leggero di una Naiade, danza le battute, ma sa anche quando è il momento di impastarle con la propria ventralità. Si abbandona nel personaggio, in esso si scioglie e si sublima. Mentre Gigi Gherzi è dappertutto , deus ex machina pudico e rispettoso, che tocca con delicatezza la trama di questa storia, come fosse (e lo è) preziosa seta. Ora si rivolge agli interpreti, ora agli spettatori, ora è lui stesso attore. E’ sempre in grado di sorridere con amorevole gentilezza, alla platea tutta. E offre il suo racconto con la spontaneità, semplicità e potenza dello spezzare il pane, condividendo l’eucaristia di un racconto che riacquista il sapore delle divinità. Nel rito, anche lo spettatore non è più solo passivo, ma si ritrova in grado di essere nuovamente destato all’aristotelica catarsi. Sono tutti meritatissimi gli applausi, generosamente tributati agli interpreti, ai collaboratori e al regista.
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