Recensione: “Regredior”

regredior
Foto Angelo Redaelli

Se Cioran aveva conversazioni assidue con il proprio scheletro, Testori le ha avute con la sua carne. Non c’è istante della sua scrittura, non c’è grafema che non grondi tessuti organici, umori. Anche in questo lavoro, completato in articulo mortis, sul letto d’ospedale, se ne ha forte testimonianza. I fonemi sono un paesaggio del corpo, sono scenografia; sono la verità di un quadro caravaggesco, con personaggi sacri presi nelle bische, prostitute, peccatori in remissione dei nostri peccati di osservatori. Ma sono anche quadri di Bacon, uno degli artisti preferiti dello scrittore, nei quali la torsione della figura arriva a farsi ferita, lacerazione, mostrando, attraverso il bisturi del pennello, l’anatomia interna. La teologia di Testori parte dal bassoventre di nietzschiana memoria, dai desideri più scomodi e inconfessati, inconfessabili, dall’inconscio nella parte più meridionale delle latitudini umane. E non c’è Anna O., o uomo dei lupi, che tenga:  sul suo lettino, o meglio sulla panca di una chiesa, in questo caso il Duomo di Milano, i personaggi raccontano quanto il corpo, lontano da quello inorganico teorizzato da Artaud, sia dominato dai suoi fluidi, dalle scorie organiche, che rappresentano il daimon socratico, il pungolo per cacciare il naso giù giù nella terra, molto, ma molto più a sud dei santi beniani.

Già il titolo, Regredior, è una dichiarazione di intenti: un ritorno, un eterno ritorno dell’autore, che riesce a graffiare anche col suo canto, volutamente stonato e disturbante, del cigno. Un clochard, un uomo da marciapiede, un everyman dei drammi sacri calato in una realtà beckettiana  – che picchia, però, come i personaggi di Berkoff –  esala il suo ultimo monologo interiore, un flusso di coscienza ininterrotto, come quello della sostanza organica che rappresenta la sua ossessione. E’ un urofilo, una Danae in vesti maschili, che cerca la pioggia dorata del suo Zeus della Bovisa. Incarna la moderna metamorfosi kafkiana, la tipologia più scomoda, più disturbante, ben oltre lo scarafaggio dello scrittore praghese. Roberto Trifirò, nel triplice ruolo di regista, interprete, e dramaturg, accetta la sfida, e immerge mani e piedi nella sostanza, nelle viscere della scrittura di Testori.  Sì, perché l’unico modo di portarlo in scena è rinunciare ai fronzoli, agli orpelli fonetici, ai pennelli, e cominciare a dipingere con tutto il corpo, sporcarsi di colore e di se stessi. Questo l’interprete lo fa molto bene, e tira fuori dalla laringe una polifonia bollente, anzi rovente, come le pietre fassbinderiane. Nella magnifica lingua reinventata dell’autore, che si lascia attraversare da suggestioni del dialetto, per poi trasformarsi in un grammelot, in grado di mutare a seconda dell’emozione e della circostanza, si vive la storia di un antieroe tragico, un Omero delle periferie, un Edipo rovesciato nell’amore incestuoso; un essere che ha ancora, di Sofocle, quel destin baloss, che gli dichiara scacco matto ancora prima che inizi la partita.

Non ci sono sconti, non c’è zucchero nell’amarissima pillola testoriana; niente facili consolazioni, o divinità che si carrucolino dall’alto per sciogliere i nodi della vicenda. I nodi ce li mostra tutti, ma proprio tutti, l’attore. Fa sentire alla platea i continui grumi di pittura presenti sulla tela della pagina; grumi voluti, necessari, per raccontare meglio le umane vicende. Si tratta di un testamento spirituale come solo l’autore lo poteva concepire, un manrovescio terribile contro la pigra passività del fruitore di letteratura e teatro. Si ritorna di nuovo, e per sempre, a quell’ineffabile rapporto tra la parola e la carne, tra il desiderio del fonema di farsi cosa viva, concreta; persino deiezione, purché lo si percepisca con tutti i sensi, purché lo si possa odorare, toccare. La lezione delle agiografie dei mistici trova conforto in una scrittura che descrive l’impossibile, l’indicibile, il metafisico, con quanto di più scomodamente fisico ci possa essere. Bastano un rozzo crocefisso, una panca da chiesa, e la presenza dell’attore,  per compiere questa particolare Messa di un umanesimo all’ultimo stadio, il più basso, prossimo alle latrine. Ma, di nuovo, quello che si mostra, e Trifirò passa alla platea, è la Passione secondo Testori, la storia di Cristo in un povero cristo che, apparentemente, più lontano non potrebbe essere. Eppure, nel suo regredire, nel suo volersi, alla fine, ritrasformare idealmente in un feto, troviamo la luce di un angelo, che riesce a penetrare persino nel più raccapricciante orinatoio. L’anima vive nella carne e nei suoi tormenti, nello sguardo, nei gesti:  e tutto questo è ben presente all’attore come un’intuizione chiara, per scriverla alla Nabokov, come quella di dover morire.

Danilo Caravà

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