Recensione: “Through The Night Softly”

softly
foto Alessandro Salette

Capita che Dioniso, di quando in quando, prenda nuovamente possesso del teatro, e lo risvegli dalle sonnacchiose, prolungate sedute sulle poltrone in platea. Accade nel caso di questo spettacolo, che fa, letteralmente,  terremotare tutte le stabili sicurezze della messa in scena, la placida passività dello spettatore. Aristotele,  decisamente, non abita qui, e persino Occam si è tagliato la gola col suo rasoio, lasciando all’atto teatrale la sua originaria purezza e libertà. Un gruppo di attrici e attori si muovono tra gli spettatori, vi si mischiano, meticciano e fanno cortocircuitare la visione e l’ascolto di quello che dovrebbe essere il momento scenico.

Diventano dei  Virgilio danteschi  in grado di far prendere coscienza, anche e soprattutto, dello spaziofuori sala, normalmente attraversato con un pigro automatismo. Mentre le voci si moltiplicano, si mescolano agli effetti: registrate e pronunciate, sono parole con una propria fisicità, nei confronti delle quali si rompe, finalmente, quel servo meccanismo dell’immediata traduzione concettuale. Il verbo si muove insieme a tutto il resto, con l’imperativo di spostarsi , scendere e salire, trasformando  la condanna di Sisifo, riscatto camusiano, nel gioco dell’adulto bambino di Nietzsche. Volutamente, non ci sono strade obbligate di senso e di interpretazione, niente foce forzata in cui l’emotività si debba sciogliere in catarsi. Tutto può essere osservato da tutti i punti di vista possibili, e può essere ripreso, riprodotto, moltiplicato.

Lo spettatore non aspetta più Godot insieme agli interpreti , ma lo va a cercare;  anzi, meglio, si dimentica del ricercare, e si muove per il gusto di muoversi. Crea, su stimolo degli interpreti,  coreografie casuali, prendendo, anch’esso, consapevolezza di sé. Come nella meditazione camminata dello zen, insieme ai piedi si muove il pensiero;  la mente accetta di mentire e di smentire, allo stesso tempo. C’è davvero, in questa pièce, una dimensione di libertà, di pura ricerca, in grado di stupire, dando le vertigini. E’ impossibile non reagire, non assecondare questa pulsione di movimento, nuova versione, riveduta e corretta, del principio cartesiano: cammino, dunque sono. Cangia davvero tutto continuamente, come ci ricorda il padre pirandelliano. Ma c’è anche una geometria adattabile -potremmo scrivere- , non euclidea, che guida gli interpreti e  insieme,  gli spettatori. Un caos controllato, un’entropia apparente che, poi, ritrova il proprio ordine ed equilibrio. E, nella platea, la logica solita si rovescia: ci si deve muovere, spostare. Si deve rovesciare (meglio che in qualsiasi trattato di teoria del teatro),  smentire, abiurare il dogma della seduta, della staticità. Ci si ritrova, come biglie impazzite, in questo strano flipper, mentre un attore osserva con un binocolo, dal palcoscenico, lo spettacolo rovesciato.

Bisogna colonizzare ogni spazio; è necessario attraversare le immagini, recuperare la tridimensionalità, la presenza degli interpreti insieme alla propria. Ecco che la fisicità, quel grado zero grotowskiano, irrinunciabile, del corpo dell’attore e dell’attrice, vivono qui la loro ideale stagione. Potrebbe essere l’ennesimo viaggio dantesco, iniziatico; stavolta,  però, in una sorta di labirinto escheriano, con scale che rimandano ad altre scale, e dove il piano è solo un intermezzo, una stazione di passaggio. I costanti tableaux vivants si formano e si ricompongono, come atomi, in differenti molecole di visione. Tutto, prima di tutto, avviene, accade, ossia, nel senso etimologico del termine, cade verso lo spettatore.  La platea non c’è: in suo luogo, un unico, multiforme, cangiante, gioco scenico, cui nessuno può dire con certezza di non appartenere.

Gli sguardi di interpreti e spettatori finiscono con il contagiarsi reciprocamente. Ed è davvero dolce naufragare in questo mare, che obbliga a spostarsi continuamente. Niente ingombranti significati precotti e predigeriti da propinare ai fruitori, solo il libero gioco di singoli intuito e interpretazione. Il fenomeno impera, nell’essere per l’altro da sé;  il teatro, finalmente e consapevolmente, può compiere il suo più riuscito sfottò della multimedialità. C’è qualcosa di profondamente iconoclasta, dinamitardo in questo evento teatrale, in grado di far saltare quella tranquillità statica della fruizione in  platea, quel ristagnare del corpo e del pensiero sulle poltrone; insomma, quel rito che rischia, altrimenti, di addormentarsi e  far addormentare, sorta di coazione a ripetere. Qui, il rocchetto del freudiano Hans va avanti e indietro che è una bellezza.  E, per una volta, è semplicemente un rocchetto, come i sigari di Freud, spesso, sono soltanto sigari.

Danilo Caravà

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