I ricordi, spesso, hanno marchingegni machiavellici. Muovono ponendo distanza ma restando satolli. Allorché noi umani, nostalgici per umore innato, tendiamo a tenerli riposti nelle tasche inagibili dei nostri levi’s, in ragione della loro verosimiglianza. Ma il nocciolo del ricordo, la sua essenza finisce per incespicare nella sua ombra nel momento in cui deve essere condiviso, raccontato. È la traduzione del ricordo, il presupposto che gli consente di uscire da se il problema stesso del ricordo. Tale traduzione spesso va a configurarsi in un’adesione alle aristoteliche unità col risultato di produrre un quadro in lontananza dove il cuore pulsante della visione si affievolisce man mano che si riduce il vuoto che ci separa dall’oggetto ritratto.
Blackout, ispirato al poema di Nanni Balestrini per la regia di Antonio Sixty, è tutto ciò. In nitida adesione al rito teatrale, la messa in scena ha l’ambizione di ritornare (o rievocare) a quel che Pasolini definiva rito naturale. Posta la complessità di pirandelliana memoria del riprodurre il naturale mettersi in scena del mondo e della storia, quel che Blackout produce è un racconto che per l’artificio diviene rito, per commemorare, per ricordare. Un ditirambo dedicato al dionisiaco insito in ogni rivoluzione.
La commemorazione prende avvio così: “sugli spalti si accendono migliaia di fiammelle
tutti ti guardano tutti guardano tutti […]
passando tra i corpi inquieti percorrendo quasi di corsa tutto lo spazio tornando indietro
se una nuova vocalita` puo` esistere deve essere vissuta da tutti e non da uno solo
con tanta rabbia”.
Lo spazio è invaso da una dozzina di attori che con caparbia presenza sprigionano un efficace magnetismo dove il polo negativo è offerto dal movimento e quello positivo dall’attenzione. L’esubero di azione, di parola, di ripetizione è vincente favorendo l’immersione in un soundscape di protesta. La presenza ingombrante degli attori, il loro agire spasmodico risulta funzionale all’eclissi della scenografia altrimenti troppo ampollosa.
Onore a Diderot, Brecht, ancora Pirandello. Bando a Stanislavski: la quarta parete è infranta, tocca sistemarsi ben composti sulle poltrone di velluto rosso, ritrarre le gambe per non disturbare, per non intralciare i tumulti di nessuno.
Castellucci suggerisce che il teatro, oggi, debba andare a fondo della sua essenza dando vita al momento in cui l’attore, incontrando lo spettatore, diviene opera al servizio di quest’ultimo. Assumendo come valido tale assioma, dunque, nulla risulta più calzante dalla modesta riflessione di uno spettatore X, sito al posto G11 del tetro Litta nel corso della replica del 10 marzo scorso, che con shakespeariano rimando scandisce il tono dell’incedere di quel varco che si inaugura all’epilogo di ogni spettacolo, domandandosi “Where is this Blackout?”.
Val la pena offrire una risposta all’enigma assistendo allo spettacolo.
Alessandra Cutillo
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