Immaginate la vita maledetta di Marco Pantani, tra gloria sportiva, camorristi e autodistruzione.
Immaginate le imprese eroiche di Gino Bartali, campione inarrivabile sulla strada e “Giusto tra le nazioni” per la sua attività anti-nazista ai tempi della guerra.
Immaginate gli scandali sentimentali dell’immenso Fausto Coppi, la sua rivalità con Bartali, la sua morte precoce.
O immaginate semplicemente il cannibalismo feroce con cui Eddy Merckx prese a schiaffi tutti i suoi rivali negli anni ’70.
Ora che avete immaginato tutto questo, ora che vi siete trasferiti con la fantasia in un ciclismo eroico e avvincente, fatto di battaglie inimmaginabili e di una vita privata ai confini della realtà, cancellate tutto e atterrate con il vostro pensiero a Sedrina, in piena Val Brembana.
Qui nasce e cresce Felice Gimondi. Siamo negli anni ’50 e un ragazzino normalissimo, appassionato di bicicletta come quasi tutti i bambini dell’epoca, si appresta a diventare un campione, seguendo la scia del suo inconfessabile amore per Fausto Coppi (in un’epoca e un luogo in cui era invece obbligatorio tifare per Bartali).
La primi bici, le prime sfortunate corse, le prime vittorie, fino alla gloria segnata dal trionfo, in giovanissima età (ventidue anni), al Tour De France, la corsa più importante, il sogno di ogni ciclista.
Sarà solo la prima di tantissime vittorie, ma sulla strada di Gimondi arriva ad un certo punto il cannibale, Eddy Merckx, e si prende tutta la scena. Di fronte a Merckx bisogna abbandonare ogni speranza di essere il numero uno. Si può solo aspirare ad essere “normalissimi” campioni. Un po’ come essere “solo” Platini nell’era di Maradona, o nascere Ibrahimovic nell’era di Messi.
Come si può raccontare, a teatro, un normalissimo ragazzino, con una normalissima vita privata che diventa un grande, ma normalissimo, campione? Prova a darci una risposta Matteo Bonanni, nello spettacolo “Gimondi, una vita a pedali”, presentato in questi giorni allo Spazio Banterle di Milano.
Una scena spoglia, come si addice alla tradizione del teatro di narrazione, costituita solo da quattro ruote di bicicletta poste su quattro supporti di differente altezza, che simboleggiano le fasi della vita e della carriera di Gimondi. Si punta tutto sulla parola, costantemente accompagnata dai bellissimi arrangiamenti per fisarmonica di Gino Zimbelli, e su una drammaturgia che prende spunto dal libro di Paolo Aresi.
Ci sa fare, Bonanni, e ci restituisce con grande passione il clima di quegli anni post-bellici, dedicando più di metà spettacolo all’infanzia e alla giovinezza di Gimondi (come fa, del resto, Aresi nel suo libro), in una prima parte che ha il peccato di apparire troppo lunga, forse proprio per via di quell’eccesso di normalità.
Qualcosa non torna anche nella parte centrale, dedicata alle prime vittorie di Felice. Si pedala troppo in fretta, qui, e si rischia di perdere il passaggio vitale che ha trasformato un normalissimo ragazzino in un grande campione. Ci perdiamo la vittoria al Giro di Spagna, la Roubaix, la Sanremo. Quasi non ci si accorge che Gimondi è stato uno dei pochissimi a vincere tutti e tre i grandi giri. E si glissa sul doppio coinvolgimento in vicende di doping (discutibile il primo, evidente il secondo).
Il perché lo capiamo poco dopo. Si vuole arrivare in fretta al racconto dell’incredibile vittoria al campionato del mondo del 1973 (erroneamente presentata, sin dal programma di sala, come l’ultima grande vittoria di Gimondi – in realtà Felice farà in tempo a vincere un altro Giro d’Italia, tre anni dopo). E qui la narrazione si fa davvero avvincente, Bonanni trasferisce la sua evidente passione all’interno di un racconto serratissimo, avvincente, in cui la dimensione fisica del sudore, del dolore, della fatica è chiaramente percepibile pur nell’immobile fluire della parola. Non si fa altro che ascoltare il racconto, eppure ci sembra di essere davvero in sella con Gimondi.
Partiremmo proprio da qui, da questa efficacissima ultima parte, per provare a ricostruire un testo che, al momento, ci pare ancora in divenire, soprattutto nelle prime due parti, per non correre il rischio di lasciare per strada un po’ di quell’attenzione che questo normalissimo racconto e questo normalissimo campione meritano. La potenzialità attoriale e drammaturgica per riuscirci c’è tutta, come dimostra il bellissimo finale.
Massimiliano Coralli
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