
Al Teatro Elfo Puccini è andato in scena per il quarto anno consecutivo lo spettacolo Road Movie, testo teatrale di Godfrey Hamilton, vincitore del Fringe Festival di Edimburgo nel 1996, definito dal The Guardian “monumentale”.
Il testo è stato tradotto da Gianmaria Cervo e vede in scena l’attore Angelo di Genio, accompagnato al violoncello e al pianoforte da Antony Kevin Montanari, per la regia di Sandro Mabellini.
In questa intervista Angelo di Genio racconta a MilanoTeatri il suo personale viaggio attraverso ROAD MOVIE.
Road Movie è uno spettacolo che parte da lontano. Ci racconti l’inizio del percorso?
Quando, nel 2013, mi hanno consegnato questo testo io e il regista Sandro Mabellini, lo abbiamo messo in scena in una prima versione che prevedeva solo un violoncello e un segui persona. La regia di Sandro è esteticamente elegante, si basa sull’andare a cercare la luce nel buio e anche io, per quanto riguarda il mio lavoro attoriale, ho seguito lo stesso percorso: ricercare la luce nel nero.
Lo spettacolo riesce a trattare tanti temi, anche difficili, come la malattia – l’aids – non parlandone però direttamente ma andando ad analizzare come la malattia e la paura della morte, in qualche modo, possano agire sui rapporti tra le persone, sui rapporti d’amore e anche sui rapporti tra madri e figli.
Road Movie racconta di un viaggio, dove porta?
Concretamente è il viaggio che Joel, il protagonista, fa da New York a San Francisco per rincontrare Scott, un ragazzo che lo ha stupito in mezzo a tanti. Joel all’inizio è come tanti di noi, ovvero preso dal lavoro, dalla fretta dovuta alla velocità della città e non riesce a fidarsi, ad aprirsi agli altri. Improvvisamente incontra questo ragazzo totalmente diverso da lui, spirituale, così diverso che gli apre qualcosa e riesce a fargli affrontare le sue paure.
Il viaggio poi lo porta a incontrare diverse persone che ulteriormente lo aiutano ad affrontare le sue paure. Lui semplicemente ascolta le storie di queste persone ed empatizza con loro; capita magari che gli altri ci raccontino le loro storie ma spesso incappiamo troppo facilmente nel giudizio e diciamo “poverino, gli è successo questo o quello…”; invece se noi riuscissimo ad utilizzare le storie degli altri anche per capire meglio le nostre paure, si riuscirebbe a crescere. E Joel lo fa.
Il Joel che si vede all’inizio è diverso dal Joel che si vede alla fine: all’inizio è molto chiuso in se stesso, alla fine sembra invece che una parte di Scott riviva in lui, nella voglia di vivere, nel modo di affrontare le cose. È un viaggio esistenziale quello che compie e, sia per noi spettatori che per me, è un viaggio nella memoria. Siamo in un Paese che dimentica tanto facilmente, non ha memoria, quindi il teatro può, per il valore civile che ha, tentare di recuperare questa memoria.
In Road Movie ti fai carico da solo di cinque storie densissime. Quanto di te hai messo nei personaggi che interpreti? Qual è (se c’è) il tuo preferito?
Madiva, la prima madre che Joel incontra, è una donna che reagisce alla morte del figlio diventando per sua stessa necessità una “egoista illuminata” mettendosi a distribuire preservativi per contribuire alla lotta contro l’aids. Il suo è un atteggiamento molto figlio del ’68 americano. Lei crede che tramite la propria sofferenza si possa creare un ponte per aiutare qualcun altro.
All’opposto, la storia della madre che non sapeva niente del problema della figlia, tossica morta suicida, è quella che mi tocca di più perché è, secondo me, quella un po’ più italiana: quante volte succede che, ad esempio, i figli nati in provincia dicono a 18 anni ai genitori che vogliono andare a studiare in città e finisce che i genitori sanno sempre meno della vita dei loro figli? Manca un dialogo tra le due generazioni.
Lo spettacolo nasce, in fondo, dal desiderio di usare me stesso per raccontare queste vicende. Conosco e vivo il mondo gay da molti anni, quelle che interpreto sono storie che conosco bene e mi fa piacere avere un testo così da raccontare, credo di mettere un valore aggiunto di piccole sfumature che provengono dalla mia storia personale. In tutto lo spettacolo ci sono pezzettini di me.
Tutto quello che stai dicendo si rispecchia benissimo sul palco, è per questo che arrivi al pubblico con così grande precisione e potenza.
Ogni storia è importante. Non posso credere che si continui a pensare che le 38 milioni di persone che sono morte per colpa dell’aids siano morte un po’ per colpa loro, perché se la sono cercata. Questo non sopporto della società rispetto alle malattie sessuali. Banalizzo, se ti viene un tumore ti compatiscono, se ti capita un cosa come questa “te la sei cercata”. Cosa vuol dire “te la sei cercata”? Che ho deciso volontariamente di prendermi una malattia del genere o forse la colpa, se c’è la colpa, è anche di una società che non mi ha insegnato o non mi ha detto abbastanza riguardo a come mi dovrei comportare? Non c’è una campagna istituzionale forte, che dica ai ragazzi cosa significhi adesso essere affetti dal virus. In Australia hanno debellato l’aids perché dagli anni ’90 fanno prevenzione nelle scuole: i ragazzi sono stati abituati a farsi il test tutti gli anni e adesso, da due anni a questa parte, il 99,9% affetti da HIV sono negativizzati il che vuol dire che l’aids è sparito.
In Italia il problema è che c’è ancora oggi una sessuofobia pazzesca, non si può ancora parlare di sesso liberamente. Gli insegnanti ci ringraziano per gli incontri che facciamo con i ragazzi. Tramite il teatro e lo spettacolo, una chiacchiera dopo si può fare più facilmente. Poi, ancora peggio, mischiamo questo discorso che nasce con la sessuofobia con quello dell’identità di genere. Anche di questo non se ne può parlare. E non parlare crea ignoranza. Il teatro deve tornare ad essere davvero luogo di confronto, non deve essere solo esibizione ma un dialogo aperto.
Da quattro anni fate sold out al Teatro Elfo Puccini, Road Movie è uno spettacolo a cui il pubblico si è affezionato. Cosa significa mettere in scena questo spettacolo all’Elfo ancora una volta? E cosa è cambiato nello spettacolo e in te nel corso degli anni?
Con Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani abbiamo fatto questo patto in cui ci siamo detti che finché resta sold out andiamo avanti a metterlo in scena. L’Elfo è il posto perfetto per questo spettacolo. Quando Elio e Fernando mi hanno visto per la prima volta, mi hanno guardato e detto “tu sei proprio un Elfo”. Questo è il modo e il tipo di storie che anche loro hanno voglia di raccontare. Questo teatro è un posto meraviglioso, una famiglia gigantesca.
Nello spettacolo è cambiato il musicista, da due anni a questa parte c’è Antony che non cambierei per nulla al mondo perché è uno di quei musicisti che non è solo un musicista ma anche una presenza importante, è in ascolto con la storia, è appassionato di quello che stiamo raccontando. Abbiamo adattato insieme dei pezzi che vanno dai Pink Floyd a YMCA col violoncello.
Io poi facendo questo spettacolo continuo a cambiare ogni anno, mi viene sempre più voglia di portarlo in giro, soprattutto quando vedo che anno dopo anno anche i dati relativi all’aids diminuiscono, c’è una parte di me che dice “magari abbiamo permesso anche noi a qualcuno di essere più consapevole”. In più sono cambiato e diventato più consapevole della necessità di creare un filo di comunicazione diretta ed emotiva tra palco e platea e la cosa che più può farlo è l’attore, consapevole del fatto che raccontando una storia può cambiare le persone che ha davanti. Puoi avere la tecnica, le luci più innovative sul mercato ma la parola e l’attore sono loro la vera potenza.
intervista di Valentina Dall’Ara
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