Recensione: “All in”

all in

All In della compagnia catalana ATRESBANDES conclude la XVIII edizione del Festival Tramedautore 2018, svoltosi ancora una volta al Piccolo Teatro Grassi. Anche quest’anno l’evento ha costituito una fondamentale vetrina per la valorizzazione della drammaturgia nazionale e la scoperta di quella internazionale, nell’ottica di un dialogo inter-culturale e generazionale profondamente segnato dallo scenario politico e sociale degli ultimi anni.

ATRESBANDES è una compagnia straordinariamente eclettica e ciò traspare in maniera potente dalle varie componenti che fanno di ALL IN uno spettacolo, in un certo senso, avanguardista. La denuncia socio-culturale di un mondo di categorizzazioni fa da substrato ad un discorso che ruota attorno alla manipolazione/conformazione dell’individuo/cittadino/suddito, dalle manifestazioni più evidenti a quelle più nascoste. Per strada, in metro, a scuola, nella nostra stessa casa siamo bombardati da migliaia di messaggi che contrassegnano il nostro tempo (anche se di “nostro” è rimasto ben poco) e che, inevitabilmente e persino inconsciamente, influenzano le nostre azioni, dalla quotidianità alle prospettive di vita. Sudditi di dittature più o meno conclamate, di varia natura, statura, colore e forma, ci muoviamo nel mondo come se ogni nostro passo fosse pre-ordinato e, anche consapevoli di ciò, accettiamo la norma piuttosto che il vuoto, la regola anziché l’arbitrio. Non solo li accettiamo, ma ce li imponiamo l’un l’altro, in un gioco di potenti e sottomessi, poveri e ricchi; in un Panopticon di apparenze effimere ma consolidate.

Una successione di luoghi comuni, non solo fisici ma anche concettuali: una discoteca, una scuola di inglese, un programma di auto-aiuto e un magazzino. Spazi di un essere collettivo, in cui ci riconosciamo (o rinchiudiamo) ognuno nel riflesso dell’altro. Un viaggio surreale che attraversa tutti questi luoghi affrontando, con geniale ironia e satira pungente, un assunto fondamentale della odierna società europea: lo scambio iniquo di diritti e doveri tra sovranismi più o meno espliciti e conformanti tentativi (o imperativi) di “unione”. Ciò viene testimoniato dalle “gags” assurde e tragicomiche che si svolgono tra i personaggi, sul filo di tematiche contemporanee ma con radici antiche, dal terrorismo all’oscuro concetto di “integrazione”, in un multilinguismo che non è risorsa preziosa ma attacco ad un sistema di facciata. Qui, ad esempio, l’inglese, più che lingua comunitaria, diviene perfetto strumento di manipolazione, conformismo dilagante, idioma di un Regno Pubblicitario che sussiste al di sopra di ogni nazionalità ( o nazionalismo).

Dal punto di vista tecnico-scenografico, la compagnia propone coerentemente un discorso sulla contemporaneità che investe anche i mezzi espressivi : giochi di luci e colori, ritmi sonori estremamente ricercati ed uniti a scenari onirici, ombre che danzano vorticosamente e voci acusmetriche. Un concerto di creatività che testimonia un percorso di ricerca raffinato e avanguardista, appunto. Il tutto supportato da interpreti versatili ed eclettici.

La pièce ha inizio e fine all’interno di uno scenario incredibilmente affascinante ma anche angosciante: il Festival di Arirang in Corea del Nord, in cui masse di esseri umani si muovono in un regime di sincronizzazione incredibilmente preciso tanto da apparire opprimente e in cui ciascuno ha un proprio ruolo definito ma al contempo inutile , senza alcun valore umano né creativo. Parti di un meccanismo alienante. Potente metafora di un regime storico e monolitico che dirige il Paese da decenni, ma che non riguarda solo quella determinata porzione politico-territoriale. Si estende a macchia d’olio sul panorama mondiale, in differenti varianti, sotto forme mutevoli. La macchia c’è. Lo sappiamo. Non vogliamo vederla, ma ci sporca i vestiti e le mani e prima o poi dovremo farci i conti. Dovremo svegliarci dal torpore di questa schiavitù silenziosa ma estremamente capillare.

Giuseppe Pipino

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