
Il teatro degli anni duemila sembra procedere per ondate tematiche, sempre strettamente legate all’attualità. Fino a qualche anno fa, in seguito all’esplosione della crisi economica, sembrava imprescindibile l’approccio ai temi del lavoro. Più recentemente abbiamo assistito ad una massiccia produzione di spettacoli a sfondo omosessuale mentre negli ultimissimi tempi, e ancora adesso, la fanno da padrone il dolentissimo tema dei migranti e quello dell’identità sessuale e di genere. In quest’ultima direzione, pensiamo, ad esempio, alle recenti produzioni di Atopos, alle sorprendenti ricerche di The Baby Walk o al clamoroso Fa’afafine, che tanto sgomento ha suscitato la scorsa stagione tra i benpensanti e i paladini della morale cattolica.
Si muove in questa direzione (ma non solo) anche Boccaperta, produzione di Teatro Periferico vista lo scorso weekend al Pacta Salone, in cui vediamo un buffo preadolescente pugliese alle prese con un “monologo di formazione a più voci” (così lo definisce l’autore Tommaso Urselli) nel corso del quale il ragazzino gioca a rappresentare sé stesso, la sua famiglia e i suoi amici fotografandoli nel momento più delicato della sua crescita, quel passaggio decisivo in cui ci si ritrova ad avere a che fare con la scoperta del proprio corpo e delle prime pulsioni e in cui ci si inizia a porre domande sul senso dell’esistenza e anche sulla morte.
Come accade frequentemente nei suoi testi (ricordiamo il magnifico Il Tiglio – foto di famiglia senza madre di qualche anno fa), Urselli conduce con sapienza la drammaturgia, lasciandola navigare brillantemente tra il registro lirico e quello surreale, offrendo qui la possibilità a Dario Villa di cimentarsi con una galleria estremamente variegata di personaggi: dai suoi genitori ai compagni di scuola, che gli affibbiano il soprannome che dà il titolo all’opera.
Tuttavia, se è vero che dal testo abbiamo potuto ricavare spunti di notevole interesse, non altrettanto convincente ci è parsa la messinscena, curata da Paola Manfredi, sin dall’ouverture, davvero un po’ maldestra, in cui vediamo il fantoccio di un feto pronto per essere espulso. Lo spazio d’azione del protagonista, giustamente piccolissimo e sostanzialmente limitato ad un baule e alle sue immediate vicinanze, si disperdeva nell’immensa apertura posteriore del salone di Via Dini, portando lì anche frammenti della nostra attenzione, senza però riuscire nell’intento di enfatizzare la solitudine del ragazzino. Alcune scelte, come la presenza di un inspiegabile separè o di una pianola scarsamente utilizzata, ci sono parse più legate alla necessità di momentanee soluzioni sceniche che non a reali urgenze estetiche o di poetica narrativa. Anche l’impianto illuminotecnico, nonostante il testo prestasse il fianco alle soluzioni più varie, ci è parso molto basico, limitandosi di fatto ad un piazzato morbido e a qualche gioco coi controluce.
Tutto questo non ha aiutato il pur generoso Dario Villa ad affondare il colpo. I numerosi personaggi da interpretare avrebbero potuto dargli la possibilità di una prestazione istrionica ma la sua versatilità (che abbiamo comunque potuto intuire) è rimasta un po’ sospesa, mai troppo divertente, mai troppo straziante. Era evidente il tentativo di restituire gli accenni imitativi dei bambini, più che una reale galleria di personaggi differenti, ed è forse questo il motivo per cui questi stessi personaggi non sono mai stati portati all’estremo ma l’operazione ha centrato il bersaglio solo in alcuni momenti.
Massimiliano Coralli
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