Recensione: “Creaturamia”

creaturamia
foto Emanuele Limido

 
La grande lezione che proviene, immediatamente, da Creaturamia, prodotto da TeatRing, è la necessità, l’urgenza del raccontare. E tutto questo non arriva attraverso una serie di deduzioni, un’algida dimostrazione more geometrico, ma ti passa attraverso la pelle, nella carne; ti fa trovare nella parola quella forza magica, primordiale, che s’agitava nella mente e nella penna di Artaud. E allora, ecco l’atto del raccontare in purezza, cioè del contare con forza gli istanti, e a ogni istante una parola, e ad ogni parola una creazione. Ci sono tutta la forza e l’energia dell’incipit del Vangelo secondo Giovanni, con una piccola, grande variante: in principio era il verbo, e il verbo era presso il teatro, e il teatro era il verbo. Se, poi, si narra la storia di una madre, la potenza della storia è pari di quella di una bomba termonucleare. Ecco la maternità, quel femminile che si mostra nell’eterno gioco delle scatole cinesi, di una cosmogonia che regala alla donna, da sempre e per sempre, il ruolo dell’alfa e dell’omega, dell’inizio come del termine dell’esistenza, di dolce nutrice e tragica accabadora.

L’attrice e autrice, Marianna Esposito, è, già di per sé, racconto: un libro fatto di carne, che si apre e si chiude. La bocca e gli occhi sono interpreti dotati di una propria indipendenza; per dirla alla Baudelaire, hanno più ricordi che se avessero mille anni, sono pieni di una trascesa e, al tempo stesso, immanente magnani-mità. Avvolta in quel nero da prèfica, si sobbarca il ruolo di Parca per tessere il filo della storia, per dipanarlo e mantenere una guida e un riferimento, nel dedalo delle frasi, dei periodi paratattici e ipotattici: un labirinto la cui struttura evoca, immediatamente, il ventre. I percorsi di questo viaggio, al tempo stesso coreutico e di parole, e quel tracciato ripiegato su se stesso, evocano anche l’anatomia cerebrale. Il figlio, un Amleto delle periferie, un Oreste in cerca del suo amore tossico, orfano di Cristiana F. e del suo zoo, trova, in un appannato anno 2000, l’ago e il suo oppio tagliato male, e neanche una parola di Cocteau pronto a consolarlo. Ma ha una madre, e che madre: una testoriana mater strangosciàs. Mentre nello smog di Milano, nella passerella di canne(S), nel vestito di grisaglia delle strade e delle case, Sofocle trova una seconda patria. Gli basta allargare un po’ le vocali, e far finta di avere fretta anche se non la si ha veramente. Eroina al posto dell’accecamento, e una Giocasta che è, insieme, Tiresia, e lancia sassi contro il cielo, come neanche un eroe tragico sarebbe in grado.

E poi, c’è quella caratteristica che un Gassman puntuto, con una sigaretta pencolante sul labbro, ammise, come onore delle armi, all’amato/odiato Carmelo Bene, ossia la capacità di provocarsi danno con le parole. Ecco, una chiave di lettura di questo lavoro potrebbe essere quella di un sacrificio femminile, di una milanese madama (s)butterfly, en ralenti: la capacità di aprirsi il ventre, lentamente, ma inesorabilmente,  mostrandolo al pubblico con la sincerità e la naturalezza di un bimbo. Come quando si lega il filo del racconto intorno al viso, manomettendosi  deliberatamente la capacità di fonazione. E’ nella ferita che si intravede una luminescenza mistica , di crescita; è nel callo osseo cardiaco, successivo alla frattura,  che nasce la possibilità di battere meglio i colpi sistolici e diastolici dell’esistenza. Lo sa bene, la protagonista, e  lo vive, fotogramma dopo fotogramma, portandosi dietro l’ ultima sedia di Ionesco, per costruire mille teatri dell’assurdo quotidiano.

Quando riesce nel paradossale esercizio di ridere e piangere contemporaneamente, sembra proporre una versione emotiva di quelle giornate in cui il sole e la pioggia convivono insieme… sembra ricordare, alla platea tutta, che questa è la vita, l’equilibrio sopra la follia, la capacità del giocoliere, che siamo tutti noi, di maneggiare le sfere del comico e del tragico. E’ complice del suo pubblico;  lo invita, ammaliante, a sporcarsi ben bene di questa vita, come il bambino farebbe con la terra. I suoi sorrisi sono lì, sospesi, fuori dal tempo eppure nel tempo, pronti a sfidare le categorie kantiane. E quando balla, quando libera la taranta che è in lei, quando le sue gambe sono nel profondo sud dei santi, si anima di una magica elettricità, e si concede in un rito sciamanico, catartico, in grado di scrollarsi di dosso il piombo metafisico della sofferenza. La geniale intuizione dell’attrice è quella di non diventare una madre, bensì diessere la madre, quella archetipica; prima di tutto, genitrice del racconto, che partorisce e che lascia, letteralmente, gattonare, camminare sul palcoscenico. Si compie una perfetta sovraimpressione di Medea, di Andromaca, di Cassandra  in un solo corpo che crede, con i suoi gesti e con la sua prossemica, in un dio, certo; ma un dio che passi dalla carne, e lì sosti, dalla parti del ventre, per una nuova ed eterna alleanza con gli spettatori.

Danilo Caravà

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