Recensione: “Dentro – Una storia vera, se volete”

Dentro
Foto Federico Sigillo

Il teatro non è diverso dal resto del mondo, è il resto del mondo. È il resto del mondo da cui si pesca per metterne a fuoco solo una porzione alla volta. Giacché
porzionato, deve dire quello che il mondo nell’interezza non vuole sentire, non si prende la responsabilità di vedere. Isola un’idea favorendo la comprensione del
mondo, seminando dei piccoli tasselli di verità, mettendo al lavoro l’inconscio collettivo su temi atavici che non riescono a trovare le parole giuste.

Dentro, scritto diretto e interpretato da Giuliana Musso in scena al Teatro Carcano dal 26 al 29 gennaio, è un’indagine sulla verità dei figli e sulla loro sofferenza che
non è mai prova provata. Non c’è argomentazione che tenga rispetto alla costruzione scenica e ai tecnicismi teatrali di un’opera che vale definire tale perché sul palco c’è la vita. In scena una madre (Maria Ariis) e una donna (Giuliano Musso) bersaglio di una confessione scandalosa: un incesto, il più antropologico dei tabù.
Il tabù non secreta, quindi non tutela.

Non censura, quindi non punisce.
Il tabù occlude, non ha un contenuto. Blocca. È un silenzio che diventa materia e che si confonde nella cultura come prodotto della stessa.
È un compagno coerente della violenza che, ontologicamente, non si fa dire. Resta celata, mal rivelata, si trasforma in altra violenza, in rabbia, resta incompresa diventa
demoniaca. Su questo e molto altro dibatte la Musso in Dentro. Con imperiosa visione, snocciola un bestiario di sentori umani e dolorosi rispetto ai quali dobbiamo (a volte perché paralizzati) fermarci a riflettere.

C’è la verità.
Possiamo scontrarci con la verità, cercare la verità, tendere alla verità. La verità è che comanda la realtà, fatta di verità frammentate e talvolta sedicenti.
La verità e la sua relazione plagiata con la realtà che diventa sibillina quando triangola con la giustizia.

C’è la giustizia. Che nulla ha a che vedere con la realtà perché, come la verità, deve farci dei conti che difficilmente tornano bene. C’è la giustizia imbrigliata in un sistema che spesso non trova sfogo nell’unica legge esatta: la legge di coscienza.

Una giustizia che è questione di potere che esercita una forza che oggettifica destinando a una morte in vita. C’è la violenza.
Una violenza che è inimmaginabile e non si riesce a dire, non si riesce a mandar giù come un rospo che non si trasformerà in qualcosa di altro. A dispetto di quanto
psicologi, specialisti e professionalità un po’ ustionate dalla realtà tendano a suggerire. C’è la violenza che incontra il corpo, il corpo di una persona bambina che
non guarda ma conosce bene le pareti di carne che la compongono. Le pareti di carne che costituiscono la sua casa qui.

C’è la casa.
Il luogo dove deporre la maschera e lasciarsi essere, in cui nascere crescere e lasciarsi amare. C’è una casa che diventa un teatro, uno spazio in cui si recita e in
cui non si è al sicuro.

C’è la parola.
La parola che, manco a dirlo, teme di essere e sbaglia a significare la realtà.
Una parola inoperosa, una parola che non riesce ad aspirare alla verità. Una parola che dove c’è fallisce, dove non c’è non chiama. Ma quando la parola non chiama,
non c’è tregua e non si può mai far rientro a casa.

E c’è la responsabilità.
La responsabilità che cuce il tutto, che della parola porta la verità della realtà. La responsabilità che respinge la violenza e il potere imbrigliato della giustizia per
guardare al bene; per cercare di trasformare la sofferenza che non è mai una prova per la giustizia ma lo è per la realtà di una vita compromessa.
La responsabilità di rendere accoglienti le case che, spesso, hanno luogo in persone. La responsabilità di scegliere le parole e la parte del bene.

Stupro, attacco, oltraggio, aggreasione, trauma, seduzione. Tutte parole che significano un concetto univoco, ma una di esse è ambigua e fraintendibile.
Dentro chiama a non fraintendere, a non dubitare della verità della sofferenza.
È un appello alla responsabilità del non detto, del fatto e non fatto, del frainteso. Uno
strillo per fare i conti con quello che non si vuol vedere perché orrifico.
Un richiamo alla responsabilità di trattenere la verità.
E tu, cosa puoi fare per questo?

Alessandra Cutillo

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