Recensione: “Il custode”

custode
foto Fulvio Michelazzi

Il custode (The caretaker) del premio Nobel Harold Pinter approda al PACTA dei Teatri, diretto da Riccardo Magherini e con un testo appositamente aggiornato da Alessandra Serra, traduttrice ufficiale dell’autore inglese. La scelta di mantenersi fedele all’originale, nel caso di quest’opera in particolare, è probabilmente la soluzione migliore che un regista possa adottare. Il custode è un testo complesso, che offre numerosi spunti, diverse vie trasversali per inseguire l’opera e i personaggi che ne fanno parte. Stravolgerne delle parti o la rappresentazione significherebbe compiere un primo passo falso che potrebbe minare l’intera messa in scena, essendo quella pinteriana una ricerca antropologica che si serve del testo come suo mezzo privilegiato. Le parole del drammaturgo diventano armi o scudi all’occorrenza, strumenti di deliberata finzione o dissacrante verità ed i silenzi riempiono i non-luoghi pinteriani, assumendo una potenza emotiva e trainante nei confronti del pubblico e dell’opera stessa.

All’interno di un appartamento della periferia londinese, in una stanza tanto colma di suppellettili quanto inconsistente e mancante di umana affettività, si svolge un gioco beffardo che vede coinvolti due fratelli, Aston e Mick, ed il vagabondo Davies. Quest’ultimo, incontrato dal giovane in un pub dove il vecchio lavorava, e dal quale è stato cacciato malamente, ottiene l’ospitalità di Aston che gli offre di diventare il custode della stanza. Davies, seppur non lo comprenda realmente, accetta l’incarico. Da qui si dipanano una serie di incomprensioni e manipolazioni, che coinvolgeranno anche il fratello Mick, il più furbo e provocatorio dei due, all’insegna di una ineluttabile quanto deliberata incomunicabilità.

Una fedeltà al testo, quella su cui Magherini basa il suo Custode, che rappresenta di certo una forma di sensato rispetto nei confronti dell’autore e dell’aura di quest’opera. Parlare del concetto di aura in questo caso è fondamentale per capire la portata del testo pinteriano e l’approccio ad esso. L’aura, come affermato dal noto filosofo tedesco Walter Benjamin. “non è né l’oggetto, né l’involucro, bensì l’oggetto nel suo involucro […] l’aura muta e muta radicalmente con ogni movimento della cosa di cui è l’aura”. L’autenticità del testo pinteriano consiste nella situazione storica e socialmente emotiva nella quale è calato. Ciò lo rende un’opera non particolarmente manipolabile o che si presta felicemente a riscritture e alterazioni strutturali. Tuttavia, ci sono diversi anfratti nei quali il regista può prendere posizione e farsi guidare dalla propria sensibilità nel definire un gesto artistico incisivo, che renda l’opera perfettamente riconoscibile eppure portatrice di un’impronta personale. E in questo, purtroppo, risulta mancante la messinscena di Magherini, per quanto dal lato comico/farsesco sia notevolmente capace di creare le giuste situazioni di amaro umorismo tipicamente pinteriano. E in questo risulta degna di nota l’interpretazione di Antonio Rosti nei panni del vecchio vagabondo Davies, capace di reggere l’onnipresenza del personaggio sulla scena senza provocare momenti di noia. Lo stesso Magherini esprime un lavoro sul personaggio Mick che aderisce al “character” prospettato dall’autore inglese, sebbene lo privi di una sottile amarezza e sensibilità costitutive dello stesso.

La drammaturgia luminosa risulta estremamente semplice e funzionale al progredire dell’opera, sebbene avrebbe potuto essere di maggiore impatto. Stesso discorso vale per l’utilizzo del suono. Apprezzabile il richiamo sonoro ai rumori urbani e al contempo all’ancestrale caoticità della mente umana. Tuttavia non si prende in considerazione un elemento fondamentale dell’opera: le semplici, e al contempo fortemente evocative, gocce di una pioggia incessante, che si riversa nel secchio attaccato ad un soffitto precario tanto quanto la mente di Aston, stracolma di tutto ciò che ingombra la stanza, e le relazioni anaffettive che, maldestramente, instaura o mantiene.

La messinscena in sé ci presenta in maniera strutturalmente fedele, come ho già detto, il microcosmo pinteriano di anime eternamente perdenti e fallimentari, di cui, tuttavia, intravediamo la superficie ma non cogliamo il cuore. Ed è in questo che risulta particolarmente mancante la trasposizione di Magherini, nell’esporci, nudamente, il cuore dei personaggi, dell’autore, del momento storico, del regista, degli attori e del pubblico stesso. Ci sono momenti di sprezzante realtà che, proprio perché immersa nella farsa, acquista maggiore valore e bellezza: il monologo di Aston, lo sfogo di Mick e il finale stesso, per citarne alcuni. Tuttavia, i testi sono imperituri, e nell’odierna multimedialità ancor di più, proprio per darci l’opportunità di ritornarci sopra, dopo mesi o magari anni, e scoprire nel ritorno un’inaspettata e più vibrante rinascita.

Giuseppe Pipino

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