
L’attore Roberto Trifirò, in scena, è una presenza, al tempo stesso, immanente e trascendente, e la sua carne, asciutta, essenziale come quella di un personaggio dei quadri di Schiele, ha dialoghi metafisici, potentemente spirituali, con il suo scheletro. Le sue mani hanno la bellezza evocata da Lautremont, quella della retrattilità degli artigli di un rapace; e proprio del rapace il suo viso ha le sembianze, screziate di una dolce inquietudine, frutto della penetrante iride cerulea. Vive, letteralmente, un’intesa completa, erotica, mistica con il testo di Fabre. Si cala, omaggio a Wenders, nei panni di un angelo che cerca di farsi uomo: di un eterno che, con la stessa selvaggia determinazione di un naufrago aggrappato allo scoglio, cerca quel gusto del tempo, quel suo scorrere nella percezione, che solo ai mortali è dato avere. E, mentre narra all’uditorio, mentre si rivolge direttamente alla platea, fa una scoperta che passa sicuramente dai territori dell’inconscio collettivo. Scopre che essere è dirsi, raccontarsi; un’affabulazione in grado di evitare le trappole e la rigidità del letteralismo, per farsi nuovamente mito.
E’ un moderno aedo, l’interprete, capace di rendere il verbo, un sentiero mesmerizzante. Si entra in una sorta di trance dolce di ericksoniana memoria, ascoltandolo dalla parte della platea; si scivola in un terreno dell’invisibile, un regno certamente artistico, teatrale, nel senso più pieno del termine. Questa parola fa del “plagio”, evocato dall’autore stesso nel titolo dell’opera, un modo per vivificarsi, per rinascere continuamente dalle proprie ceneri, come la fenice. In questo monologo il verbo non è semplice medium, strumento, ma diventa il significato stesso, il dito che, in barba al famoso adagio, si rende oltremodo più interessante della luna che dovrebbe indicare. D’altronde, i personaggi evocati attraverso pietre cerebrali – Einstein, Gertrude Stein, Wittgenstein, Frankenstein – sono i testimoni della relativizzazione del reale, che passa attraverso il codice linguistico. Il mondo è come lo si dice e lo si scrive; la genesi è, sostanzialmente, un atto di creatività narrativa. Persino l’incipit del Vangelo di Giovanni sembra certificarlo: “In principio era il verbo”. Sarà per questo che l’angelo di Fabre si sforza di precipitare, letteralmente, tra le “scimmie chiacchierine”, gli esseri umani, e la loro forza creativa. In tale flusso di coscienza, interrotto solo dalla risposta all’eterna domanda “che ore sono?” – esercizio con cui l’angelo sembra voler risvegliare la propria “temporalità”- , è dolce, anzi dolcissimo, naufragare. Benché l’impianto sia certamente apollineo, fatto di danze, geometrie rituali di movimento, piccoli gesti psicologici capaci di implementare il capitale emotivo del personaggio, l’effetto è decisamente dionisiaco; ci si sente piacevolmente vittima di una “interstellar overdrive”, di una sbandata interstellare. I fonemi diventano, uniti e concatenati chimicamente l’uno all’altro, la struttura di una droga lisergica, serotoninergica; potente stimolante in grado di acuire il senso dell’invisibile, dell’arte e della spiritualità, sicuramente il più addormentato e spento, per l’uomo del ventunesimo secolo.
Non c’è un singolo istante, passato all’amperometro dell’attenzione critica, che non sia mosso da una teatrale causalità, necessità. Trifirò, anche regista dello spettacolo, ha costruito questa pièce, come si animavano nel cinema pupazzi, con la tecnica di slow motion, del passo uno, scattando una miriade di fotografie dei singoli momenti: fotogrammi in grado di rappresentare, nei suoi più intimi recessi, l’azione scenica. Ma è anche il capitale di intertestualità dell’opera a vivere una felice stagione in questa messinscena, dove ogni riferimento è ricercato, amplificato, reiterato, come in un infinito gioco frattalico. Non è l’originalità a fare la differenza; non è il mito di un archetipo a garantire la denominazione di origine controllata delle idee, bensì la loro contaminazione, la deliberata costruzione del “monstrum” di Frankenstein, vivificato dall’elettricità della narrazione.
La ricerca è continua, inaspettata, stupita del proprio cangiare quanto chi la osserva, ma è proprio questa epistemologia, in grado di toccare i territori della spiritualità, a fare dell’uomo un’irresistibile tentazione per la grigia immortalità dell’angelo.
Danilo Caravà
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