Recensione: “Improvvisamente l’estate scorsa”

estate
foto Luca Del Pia

C’è un’intuizione potente e vincente, nella drammaturgia di Tennessee Williams, che si rivela, in tutta la sua spietata verità, in questa pièce: la memoria. I personaggi hanno un capitale di vita importante, molte volte scomodo, che si esprime attraverso le parole, e che copre, oltre al territorio del già accaduto,  anche quello del desiderio. La mamma/zia Violet, dottoressa Stranamore sulla sua sedia a rotelle, usa le parole come fossero armi di distruzioni di massa, ordigni nucleari, contro la nipote Catherine. E’ l’archetipo di ogni possibile madre freudiana, nevrotizzante e nevrotica, ma anche, liricamente e melanconicamente, indirizzata al suo viale del tramonto, in cerca di un primo piano di De Mille.

La giovane, la madre e il fratello arrivano su di una macchina incidentata, in realtà già presente in scena, nascosta dal fogliame, espressione di un falso movimento; ciò che davvero si muove, e freneticamente, sono le parole. Dea ex machina, Catherine;  o, meglio, una creatura di cristallo maledettamente fragile, che vomita poesia ad ogni fonema. Il dottore ha una vocazione decisamente socratica, e fa partorire verità ai personaggi;  seppur robustamente saldato nel presente, vacilla, tuttavia, all’evocazione delle estati scorse. Il drammaturgo americano tiene in serbo una meravigliosa sorpresa per questo lavoro, ovvero uno degli omaggi più riusciti alla tragedia greca. L’azione orripilante non era mai mostrata sulla “skenè”, ma era sempre evocata da un personaggio che, drammaticamente, la descriveva. E la stessa cosa succede qui, per la storia di Sebastian, primo motore immobile della vicenda, sebbene evocato solamente a parole.

La sua fine cannibalesca ha la spietata crudezza orrorifica di una tragedia senecana. La catarsi, dopo 25 secoli, è fresca e attuale come non mai, per un figlio, insieme, fiore del male di baudelariana memoria, e fiore virgiliano calpestato dal male. E proprio le piante tanto amate, evocate nella vicenda, incombono dall’alto, quasi una sorta di nuvolone vegetale pronto a tuonare, e far piovere parole addosso ai personaggi. La macchina del fumo, intanto, continua incessantemente a funzionare, dando una sensazione di clima umido e torrido, e regalando una sorta di effetto flou alle immagini di questo spettacolo. Giustamente, la percezione che deve arrivare alla platea è quella di un’atmosfera onirica, sospesa tra il sogno e la realtà; un po’ come se gli spettatori  avessero avuto la stessa puntura somministrata dal dottore  a Catherine, per predisporla al traumatico ricordo.

Merito del regista, Stefano Cordella, è quello di aver battuto gli interpreti della vicenda con la stessa forza e animosità di Williams davanti alla sua macchina da scrivere. La parola la fa da padrone, si aggira, volteggia, calpesta, ora tersicorea, ora con un pesante passo da stivalaccio militare. E il momento del racconto di Catherine è il modo con cui il dottore l’aiuta a pulire il nero dal cuore,  immergendolo nella neve della consapevolezza. Sembrano, a volte, incontenibili conati i suoi, per una storia che ha  l’emergenza di dirsi al pubblico, in tutta la sua crudezza. L’espettorato catartico della ragazza ha tracce di rose calpestate sul bianco di una strada di Cabeza de Lobo. Laura Marinoni è una madre fenomenale, espressione indovinata di ogni possibile contraddizione: forza/fragilità, razionalità/irrazionalità, prosaico/poetico. Ma, soprattutto, dalla Hepburn dell’adattamento cinematografico,  passa a  Gloria Swanson, in certi momenti di sospensione, di sovrappensiero, appena un passo prima del buio della follia. Edoardo Ribatto è il medico ideale: con la sua voce già naturalmente seduttiva e mesmerizzante, calda come le pietre roventi, ci accompagna giù, giù, nella tremenda evocazione  finale, con mani fonetiche gentili, ma risolute. Leda Kreider è una Catherine che sintetizza ogni possibile paziente freudiana, Anna o Dora.

La sua nevrosi è una sorta di bacchetta di rabdomante, in grado di tremare di sussurri e grida, e di indicare dove si trovi la fonte di ogni male ed ogni poesia. Ion Donà è il fratello di Catherine, che cerca, con sanchopanzesco pragmatismo, di salvare il salvabile e di impedire, inutilmente, che la sorella vada, lancia in resta, contro i mulini a vento. Elena Callegari, infine, è una madre di Catherine in nero, perfetta prefica e corifea di questa tragedia: straziata e straziante, assiste, impotente, allo sciogliersi della vicenda. Nessun dio si carrucolerà dall’alto, troppo intento a godersi  lo spettacolo della sua crudeltà. 

Danilo Caravà

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