Recensione: “La notte di Antigone”

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L’eternità per Antigone comincia così, con un’immagine potente, quella scelta, per questo spettacolo, dal regista Ferraù, una sorella che cerca di coprire il corpo del fratello “ribelle”, il Polinice sofocleo, il Cristo che si è fermato anche prima di Eboli, in una galera, e la sua personalissima ballata del carcere di Reading è tutta lì, chiusa nella pittura fisica del suo corpo, nella luce ambrata di un pennello caravaggesco impegnato a cercare il divino giù giù nella carne, che ha un disperato, selvaggio, desiderio di sentirsi anima. Tuttavia quel velo proprio non ne vuole sapere di coprire, obbedisce alla legge di Creonte, un servo meccanismo etico, uno spettro che cerca giustizia, ma trova fatalmente la legge.

E’ fatto di corpi e di ombre questo teatro, che va al cuore di tenebra della tragedia, laddove forse nemmeno gli dei osano andare, oltre la hybris, verso il desiderio umano di una sorella di obbedire ad una legge del cuore, a cui i coturni tragici calzano alla perfezione, e quel credo risuona come una musica dolce, in grado di riprodurre un piacevole rollio di note, quelle della Barcarolle, che punteggia a più riprese questa vicenda. Le ombre sembrano fatte apposta per appenderci i ricordi, per essere trasformate nei contorni dell’infanzia di un fratello e di una sorella, in una grande magia, ed ecco che il verso dantesco diventa una scena teatrale, e l’ombra si tramuta davvero in cosa salda, convive, in una meravigliosa sovrapposizione diacronica, con il presente di una protagonista che cerca disperatamente un perché, con la perseveranza di Edipo.

Bastano due genitori ed un fratello che si sdoppia nel suo doppelganger, che si chiede se Hyde allo specchio si veda con i contorni di Jekyll, per fare deflagrare in un tutta la sua potenza un dramma in grado di esplodere negli occhi dello spettatore, impastato di lacrime e di sangue, ma anche di voci sottili, di soffiati che fanno piano per non fare ulteriore male all’anima, che suonano come una celesta, producono un suono ovattato, dolce e chiaro. Delle tapparelle, gradatamente, perimetrano il cerchio della scena, danno un contorno definito all’irrequietezza dionisiaca del fratello, diventano una geniale metafora, un correlativo oggettivo della condizione individuale, di una soggettività sensibile alla luce esterna, che, in, questo caso, può essere “spillata” quel tanto che basta, di un “io” che si ritrova il mondo addosso, non ha pelle psichica che lo copra e lo protegga, ed allora il vento della vita gli ferisce continuamente la carne spirituale. L’ombra è il simbolo di quella conoscenza del mondo, dell’altro da sé, che restituisce non le cose per come sono per se stesse, ma la loro parvenza, la loro sagoma, il loro farsi fragile fenomeno, “vagulo” e “blandulo” al pari dell’anima evocata da Adriano, sono il modo con il quale il fratello e la sorella ricostruiscono il mondo nella loro percezione, nel loro sentire.

Giacomo Ferraù, nei panni di regista, interprete e drammaturgo dello spettacolo, si lascia avvolgere da questa drammaturgia, si abbandona ad essa con rapimento bacchico, la scopre dall’interno, istante dopo istante, la vive con la naturalità dello zen, la offre allo spettatore come un pane spezzato, con quella forma di amore che in teologia si definisce Agape, ovvero l’amore disinteressato, fraterno, smisurato. L’Antigone di Giulia Viana, che collabora anche alla drammaturgia, è come la neve della canzone di Battisti, cade sullo spettatore senza far rumore, ma, quasi senza accorgersene, ci si ritrova quel bianco addosso, ed i suoi fonemi sofoclei, freschi e semplici come pura acqua di fonte, nati a legami d’amore e non d’odio, avvolgono con dolcezza, ed è qualcosa che molce il cuore. Sa farsi anche dionisiaca la sua recitazione, ventrale, ferina, e con unghie fonetiche riesce a scavare fin sotto il duro strato dell’apparenza, delle verità di comodo, del “si dice”,”si pensa” dei mass-media, di quella vita impersonale, paventata da Heidegger, chiusa in un trafiletto in quarta pagina. Enzo Curcurù, incarna il padre con incisività, lo suona come uno spartito, su tutte le tonalità, da quelle più sfumate, alle note più dure, nel tentativo, che ha il sapore di una paradossale dolcezza materna, di farsi abbraccio nei confronti di quel mistero filiale che gli si para davanti, quasi come incarnazione di un’ineffabile inconscio. Copre anche il ruolo della legge creontica, formale, che interpreta nella scena finale con Antigone, ha la capacità di farsi efficacemente sulfureo, dialetticamente mellifluo, e lo scudo della sua laringe di bronzo indirizza lampi distraenti verso lo sguardo inamovibile della protagonista.

Ilaria Longo è la madre che cerca parole per capire, ed ha il sapore salmastro del pianto e della sofferenza il suo dignitoso contegno, le va riconosciuto il merito di far sentire il rumore sottile della maschera della calma, che si incrina di fronte al dramma del figlio. Ed infine Edoardo Barbone riesce pienamente nell’impresa di essere specchio, doppio, immagine riflessa, cassa di risonanza di quel “spirto” selvaggio che “rugge” dentro il fratello. Alla fine della piece questa Antigone, ispirata alla figura di Ilaria Cucchi, sembra aver creato pazientemente, per tutto lo spettacolo, un delicato fiore, frutto di un origami drammaturgico, di una struggente bellezza, da porgere alla platea per non dimenticare.

Danilo Caravà

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