Recensione: “Milite ignoto. Quindicidiciotto”

“Milite ignoto – Quindicidiciotto” è uno spettacolo che parte dal buio e finisce nel buio. Al centro della scena Mario Perrotta resta seduto per tutta la durata della pièce, evocando e rivivendo i ricordi dei personaggi in uno spartito di voci eseguito come fosse una sinfonia. Un corale che taglia il respiro, in cui l’attore passa da un dialetto all’altro, attraverso un testo in un italiano quasi sporcato dalla fierezza delle origini. Perrotta sembra volere creare in scena una sorta di esperanto della nostra lingua, attraverso il motore drammatico della guerra. D’altronde il linguaggio italiano contemporaneo ha visto la sua fase germinale proprio lì in quelle trincee, quando chi doveva eseguire gli ordini non comprendeva la lingua in cui questi venivano impartiti.

I primi minuti sono pura apnea. Respirare assieme a lui, assieme a loro, diventa per lo spettatore quasi un bisogno fisiologico. Diventa l’anticamera della volontà di salire sul palco a tendere loro una mano. Di salire a portarli via dal fango e dal gelo, dalla benedizione del prete prima degli assalti, e dall’invocare gli alti comandi tra una bestemmia e l’altra, nelle notti di paura che precedono un’azione.
Il milite ignoto è un povero cristo e quello che fa è solo cercare di capire. “Quali confini? Quale Patria?” si chiede al sentire la dichiarazione di Vittorio Emanuele. Come già in Un bés, Italiani Cìncali e altri lavori, anche qui il tema degli ultimi e della ricerca linguistica rimangono le colonne portanti della produzione artistica dell’attore e regista pugliese.

I personaggi, qui, vanno quasi in processione. Appaiono e scompaiono rapidamente una, due, tre volte come in una danza di fantasmi finché non iniziano a diventare riconoscibili. In un nome oppure in un tratto del carattere. Ed ecco che allora, lentamente ma perché no a volte anche incompiutamente, il ritratto di ciascuno di loro prende forma.

Voci che suonano attraverso un unico strumento diventato simbolo degli ultimi, dei morti senza una motivazione che fosse loro chiara, salvo il fatto di essere etichettati come carne da cannone.
Il paragone con la sinfonia non è per nulla iperbolico. La performance attraversa precisi movimenti, esattamente come in uno spartito musicale.
C’è un tema principale che vive di respiri affannosi di soldati che dialogano tra di loro al ritmo scandito dai colpi di mortaio e di una domanda che sorge dal buio: “E tu ti ricordi?”
Ma ci sono anche le variazioni sul tema. C’è un allegro che tende quasi al jazz sincopato suonato nei caffè, che dipinge il fermento di una comunità attorno alla quale i conflitti vanno crescendo. Viene raccontata l’assurdità delle cronache riportate sui giornali, l’attentato di Gavrilo, la neutralità italiana, la protesta delle donne e delle figlie alle prime voci di interventismo.

C’è l’Adagio prima dell’assalto. L’adagio del gelo notturno, dei corpi che si abbracciano per tenersi vivi e superare la paura. Corpi che si chiedono se esista un padreterno per ciascuna parte in conflitto.
C’è il crescendo della battaglia. Uno dei momenti più emozionanti. Perrotta si fa qui narratore quasi estraniato mentre, sempre seduto, gioca con la parte superiore del corpo in ampi e lenti movimenti che si fanno via via sempre più astratti, fino ad evocare la figura di un direttore d’orchestra che ordina ai suoi strumenti le truci azioni della battaglia: corri, spara, infilza.
C’è la coda del brano, con le voci che sopravvivono e ritornano gradualmente nel buio.

Al termine dello spettacolo Mario Perrotta ringrazia il circolo culturale Everest e il pubblico per essere stato presente a quella che “probabilmente è l’ultima replica di questo spettacolo, dopo che ce ne sono state centinaia”. Dopo quattro anni di celebrazioni tra anniversari dell’entrata in guerra e centenari dalla vittoria dell’Italia, tra pochi giorni possiamo davvero celebrare il centenario della fine della guerra per tutti. L’auspicio è comunque quello di continuare a vederlo in replica questo lavoro del 2015, perché le guerre cambiano insieme ai modi di fare morti, ma né le prime né i secondi cessano di esistere.

Dario Del Vecchio

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