Recensione: “Nachlass”

nachlass

Pièces sans personnes, ovvero stanze senza persone. Così recita il sottotitolo dello spettacolo Nachlass, ideato dal gruppo svizzero Rimini Protokoll, in scena fino al 20 gennaio al Piccolo Teatro Studio Melato.

Non proprio nel teatro, a dire la verità. Il pubblico viene infatti invitato all’interno di una struttura ellittica, chiusa da ogni lato. Sul soffitto, una grande mappa del mondo indica i punti del globo in cui, nell’esatto momento in cui guardiamo, una persona sta morendo. Piccoli lampi di luce che salutano un’esistenza finita, accendendosi secondo una sequenza ritmica davvero impressionante.

nachlassLa morte ha un ritmo preciso. E questo è il primo dei tantissimi punti di riflessione dello spettacolo. Un ritmo preciso, come in una partitura musicale. Un ritmo preciso, come in un’opera teatrale ben realizzata. E questo dà il via al secondo moto di attivazione del pensiero. A cosa stiamo per assistere? Ad un’opera teatrale senza attori? Ad una performance senza performers? Ad un’installazione?

Si apre una porta, accanto a noi. Una delle otto porte scorrevoli che circondano la struttura. Il timer elettronico posto al di sopra della porta indica adesso 00:00. Ha terminato il suo conto alla rovescia durato circa otto minuti. Possiamo scegliere di entrare o possiamo aspettare la prossima porta che si aprirà. Non c’è un ordine da rispettare. In ogni caso, quale che sarà l’ordine scelto (o lasciato al caso), quale che sarà il ritmo di approccio alla morte di ciascun spettatore, la partitura verrà eseguita nella sua completezza e con magistrale competenza, come una libera trasposizione teatrale delle Variazioni Goldberg nelle esecuzioni di Glenn Gould.

Nelle stanze non c’è nessuno ad aspettarci. Eppure c’è un mondo. Un mondo fatto di ricordi, di oggetti, di voci registrate, di interni ricostruiti con estrema cura di ogni dettaglio, secondo i desideri di chi, quelle stanze, le ha abitate. C’è dunque il loro lascito, quel Nachlass che dà il titolo all’opera. Dunque, ribaltando sorprendentemente il canone, la rappresentazione non è condotta da una presenza. Qui la protagonista è l’assenza.

Ma è un’assenza talmente forte che impregna ogni centimetro quadro delle stanze e diventa più presente di ogni nachlasspresenza carnale. La persona è lì con noi, lo sono le sue parole, lo sono i suoi pensieri, lo sono le sue scelte. Ogni singolo oggetto ne ripropone i cardini vitali e la tiene ancorata ad una vita che forse non c’è più o forse non ci sara più tra poco o forse non ci sarà più tra molto. Non ha importanza. Che a parlarci sia la segretaria malata di sclerosi multipla, che ha già deciso la data della sua morte, (“Martedì prossimo, 18 agosto, andrò a Basilea, in Svizzera. A morire”), il base jumper che con la morte gioca ogni giorno ma che potenzialmente potrebbe vivere un altro mezzo secolo, l’anziana nella casa di riposo o il neurochirurgo ancora in forma ma spaventato dall’idea di una malattia degenerativa, l’esito è sempre lo stesso. Un continuo confronto con la nostra idea della morte, con la personale sensibilità che porta ognuno di noi a sentirsi più o meno empaticamente affine all’uno o all’altro dei (non) protagonisti che incontriamo, con le tante sottotematiche cruciali che la morte porta con sé: il sogno spezzato, il tema del fine vita e dell’eutanasia, la paura, la malattia, l’abbandono o la difesa delle ideologie, la dispersione dei propri averi materiali, il ricordo – nostro e di chi ci sopravviverà.

Per riuscire ad attivare nello spettatore un meccanismo simile occorre un’enorme padronanza del mezzo espressivo. Occorre una drammaturgia solidissima (perché pur sempre di drammaturgia si tratta, anche se racconta storie e vite reali), occorre un percorso filosofico talmente approfondito da rendere inutile l’ordinata sequenza delle scene, rinunciando ai vari espedienti di una tradizionale opera teatrale, come il crescendo o il gran finale, occorre una tale precisione nella cura del particolare da farci credere per otto volte, in otto stanze differenti, nel tempo limite di otto minuti, di essere davvero lì, in presenza di una persona che in realtà è assente.

Raccontata in questi termini, sembrerebbe quasi una magia, un’esperienza soprannaturale, oltre i limiti del possibile. Ma non è affatto così. Lo studio dei Rimini Protokoll (qui rappresentati da Stefan Kaegi e Dominic Huber) è quasi scientifico, sia nel calibro utilizzato per reggere il rapporto realtà / finzione, sia nell’utilizzo del mezzo tecnologico. Ogni stanza è infatti profondamente differente da ognuna delle altre. Diversamente arredata, diversamente illuminata, diversi gli oggetti, diversi gli strumenti tecnologici utilizzati per riprodurre voci e immagini: da vecchi televisori con tubo catodico a modernissimi e giganteschi schermi piatti che si accendono anche sotto i nostri piedi (come quando accompagniamo il base jumper nella sua passeggiata montana, con la videocamera che riprende solo le sue gambe, facendole sembrare nostre), senza mai risultare fuori luogo o gratuiti e sempre garantendo la massima qualità dell’audio e dell’immagine.

Se ne esce frastornati, tramortiti, con poca voglia di parlare e un gran bisogno di pensare e di bere birre di gradazione non inferiore ai nove gradi. A cosa abbiamo assistito? Ad un’opera teatrale senza attori? Ad una performance senza performers? Ad un’installazione? A nulla di tutto ciò, e a tutto questo. A qualcosa che va molto vicino a quella parola di cui spesso abusiamo, ma che qui forse, merita addirittura una maiuscola: Arte.

Massimiliano Coralli

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