Recensione: “Quel che resta”

quel che resta
foto Francesco Falciola

Monica Faggiani è già in scena quando gli spettatori entrano in sala, al Teatro Linguaggicreativi. Aspetta seduta su una delle dieci piccole sedie rosse che la circondano, insieme ad altri oggetti sparsi che riempiono il palcoscenico. E aspetta di raccontare la sua storia a proposito di mobbing, shocking e altre amenità, come ci suggerisce il sottotitolo dello spettacolo. È chiaro fin da subito che l’intenzione è quella di un dialogo intimo, amichevole e informale, al punto da potersi permettere di provocare una risata anche nelle sfumature più cupe del suo racconto.

Se tutti i mondi delle favole vengono creati al tradizionale incipit del C’era una volta, quella che Monica racconta è una favola al contrario, in cui il compito di creare qualcosa viene affidato all’epilogo della storia. Quel che resta, scritto e diretto dalla stessa attrice, lo dice il titolo stesso, è quel che resta alla fine, che non è sempre un vissero felici e contenti.

Ce lo insegna Candy Candy, che sopravvive alla morte del suo Anthony; le fa eco Persefone, che viene strappata dalle braccia della madre e rapita da Ade. Sono i due personaggi che accompagnano l’attrice nel monologo, e lo spettatore in un’altalena tra riflessioni mitologiche e spicciola filosofia pop. Personaggi che contribuiscono a sviluppare la narrazione su diversi piani, tutti ben supportati dal disegno luci di Alessandro Tinelli. I ricordi del passato si intrecciano alla lucida invettiva del presente, e ci restituiscono nel racconto della Faggiani il perfetto identikit del manipolatore, il mobber.

E come una mente subdola si insinua e scava fin dentro alla coscienza di qualcuno, minandone l’autostima e la percezione di sé, allo stesso modo le parole dell’attrice scavano dentro lo spettatore. Ma scavano con un intento opposto, quello di alleggerire, di togliere un peso dalla coscienza. È così che crea un racconto condiviso, una storia in cui tutti sono chiamati in causa, compresa Candy Candy che torna a innamorarsi del bello e dannato Terence, e inclusa Persefone che accetta consapevolmente i chicchi di melograno dalla mano traditrice di Ade.

È una storia di scelte, più o meno consapevoli, in cui ogni pedina fa il suo gioco sulla scacchiera del potere, compresa la vittima, il mobbizzato. La parte lesa, quella che per prima alza la mano se c’è da prendersi la responsabilità di un errore, quella che arriva a convincersi di essere l’errore stesso. Un racconto a proposito di mobbing diventa una domanda che l’attrice porge allo spettatore, lo invita a riflettere con una poesia attribuita a Hemingway, Sei fatta di così tanta bellezza / ma forse tutto ciò ti sfugge / da quando hai deciso di esser / tutto quello che non sei.
Allora siamo tutti di fronte a una scelta, di fronte a chi ci racconta la propria storia personale senza pretendere un’immedesimazione, ma solo ricordandoci che una via d’uscita c’è sempre, anche nelle peggiori favole.

L’attrice nell’epilogo si spoglia del vestito rosso di Candy Candy e indossa l’abito elegante di un’ipotetica Persefone, che consapevolmente si è concessa al male. E Monica con altrettanta consapevolezza ha saputo dire basta. “Ho chiuso la porta, e sono corsa via” ripete più volte, è corsa a raccontarlo a qualcuno, senza pudore né vittimismo, è corsa a raccontarlo in teatro.

Il lieto fine? Quello non è garantito. Ma che importa, quando hai sconfitto il lupo cattivo.

Alessandra Pace

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