Al Teatro Litta, nella Sala della Cavallerizza, gli spettatori sono stati attirati dall’anteprima nazionale di Alice nella giungla, titolo curioso che mescola ben noti scenari, ma non date niente per scontato.
Sola in scena una versatile Federica D’Angelo (Alice), emozionatissima ma padrona dello spazio teatrale; quello affidatole è un monologo fitto, ricco di sfumature, dal lessico anche osceno snocciolato tra frequenti variazioni di tono, fino a un intenso crescendo finale. Una parte non facile, in un contesto particolare a strettissimo contatto col pubblico.
La scena ai limiti dell’essenziale risalta le ombre, amplificatrici della suggestione semi-onirica. La regia di Gabriele Gattini Bernabò dimostra di saper sfruttare al meglio il ridotto spazio scenico, e sembra focalizzarsi sugli angoli: uno occupato da uno schermo, l’altro – il vero fuoco – da una tenda a fili sulla quale, in apertura, viene proiettato lo sfondo un po’ spaventoso su cui si muove la pièce, sostituito dal primo piano di Alice durante una videochiamata, e che infine diviene la gabbia dell’assente protagonista maschile; Rufus, il gorilla dello zoo – “nipotino” del portentoso e innamorato King Kong.
Altra grande assente è la madre, giornalista ferocemente impegnata nella difesa della libertà del corpo femminile. A lei – e a chi altro? – l’insicura Alice confida il suo amore inconvenzionale, connesso a una poco ingenua perdita della verginità.
L’ultima drammaturgia di Tobia Rossi, accompagnato dalla penna di Elisa Vottre, è ben riconoscibile nella franchezza dei temi oltre che nella salda provocazione del contemporaneo, deformato in un’irrealtà dalle tinte sgargianti.
Ai limiti della repulsione, tra l’onirico e l’erotico, la spregiudicata pulsione proibita di Alice riverbera da lontano l’incontro, nel sogno di Lucy, fra Romilda e la bestia nel film La bête di Walerian Borowczyk. E qui sta la bellezza di percorsi che si incrociano ingnari, rinvigorendo significati.
La storia della nostra moderna Alice spiazza, punge, è leggera e insieme fastidiosa, si tratta di un testo consapevole, quasi divertito, della propria eterogeneità e che con essa gioca senza merletti.
Quella della protagonista è la tensione tutta umana e sempre verde verso una definizione di sè, nel conflitto genitoriale, in un mondo che con intima disinvoltura dichiara di non essere delle meraviglie.
Quando pensiamo si possa ristabilire un ordine Alice ridesta lo spettatore, dimostrandosi per quello che è, o che cerca di essere, o che non è e che si è inventata per contraddire la madre… sembrerebbe non importare: l’amore assoluto non chiede di essere giudicato.
Arianna Lomolino
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