Una grande opera deve essere come l’acqua. Deve, cioè, essere in grado di assumere la forma del recipiente che la contiene. Viene da se’ che il contenitore debba a sua volta essere ben concepito per mantenere la globalità dell’opera. Questo Don Chisciotte è stato sapientemente configurato per un contenitore costituito da: una destino da un luogo e da un tempo.
Il destino è la fine di un viaggio, viaggiato tra illusione e speranza.
Il luogo, disperso nella periferia di una metropoli, è l’Osteria del Toboso.
Il tempo la fine degli anni sessanta in un momento, anzi, in un giorno preciso. E’ la sera del 20 luglio 1969: la vigilia dello sbarco del primo uomo sulla luna.
Il “Don Chisciotte” di Francesco Guccini, orchestrato e cantato a inizio spettacolo dai frequentatori dell’osteria, è, per i pochi che non dovessero conoscere le vicende del cavaliere della Mancia e del suo scudiero, un efficiente vaticinio dell’opera e delinea il carattere dei personaggi.
Malgrado il trasferimento delle avventure di Don Chisciotte (Alarico Salaroli) e Sancho Panza (Marco Balbi) dal 1500 alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, la narrazione rimane colma dei caratteri originali. Si incontrano e si scontrano idealismo e pragmatismo, sogno e realtà. I nemici di Don Chisciotte sono i mulini a vento e i giganti, le greggi e i mori. La cifra culturale di Sancho rimane la stessa: i proverbi e i bisogni primari. Ancora ci sono donzelle da salvare. Le armi le stesse come la stessa è la bacinella da dentista usata a mo’ di elmo. Ancora una volta Don Chisciotte si inganna ed è ingannato.
I vaneggiamenti di Don Chisciotte, le suggestioni di Pancho e lo svolgersi della vicenda sono efficacemente accompagnate da una colonna sonora dal vivo con Helena Hellwig alla voce, Enrico Ballardini e Riccardo Dell’Orfano all’accompagnamento strumentale.
Oltre l’iniziale “Don Chisciotte” di Guccini, utilizzato come introduzione, tra gli altri troviamo: “La notte” di Adamo che accompagna il riposo dei viaggiatori e “Volesse il cielo” (De Moraes) che rafforza la dichiarazione d’intenti del “triste cavaliere” a Dulcinea.
Ancora una volta Don Chisciotte si torva a combattere la grossolanità e la meschinità contingenti perseguendo i grandi ideali. Ma siamo alla fine degli anni sessanta le immagini della “Primavera di Praga”, Dubček e Jan Palach sono il miglior monito di come i grandi ideali e le grandi speranze possano a volte prendere strade divergenti se non contrapposte.
Sarà ora il fido scudiero (nel ribaltamento dei ruoli sognatore/realista) a dover riaccendere la speranza nello sconfortato cavaliere. Da quel giorno c’è la prova provata che i sogni si realizzano. Ora la luna è raggiungibile e diventa la meta del loro prossimo viaggio. All’alba degli anni settanta nel solco delle antiche illusioni un nuovo sogno da sognare.
Un grande affiatamento tra i due interpreti, una piacevole colonna sonora e la poesia data da una scenografia al contempo povera ed essenziale, rendono la riproposizione dell’opera di Cervantes una interessantissima e piacevole messa in scena.
Roberto De Marchi
Leave a Reply